venerdì 17 agosto 2018

Erasmo, umanesimo e cristianesimo della pace
Sintesi del saggio di Erasmo, Dulce bellum inexpertis (1515).
«La guerra piace a chi non la conosce»
di Enrico Peyretti, 12 aprile 2018
(pubblicato su Tempi di fraternità, www.tempidifraternita.it, 
a partire dal n. 6, giugno-luglio 2018)

Nella grande controversia del '500, sulla Riforma religiosa, influente sulla politica, Erasmo è stato accusato di viltà. Afferma Stefan Zweig che in realtà Erasmo «è rimasto più fedele all'umanità intera che non ad un singolo clan» (Stefan Zweig, Erasmo da Rotterdam, Bompiani 2016 (1934), p. 18)
Anche Hans Küng ha accusato Erasmo di «troppo poco coraggio paolino», e di «fuga» (in Teologia in cammino, Mondadori 1987, pp. 21-55, spec. 48). Ernesto Balducci, in una lettera del 21 gennaio 1989, mi scriveva: « Sono convinto, diversamente da Küng, che Erasmo, tra Roma e Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con sé anche la riforma della chiesa, era quella della pace. Non è forse oggi la vera questione ecumenica?».
Oggi è dunque da riaccendere l'attenzione e l'interesse per Erasmo come un padre della migliore modernità. «In Erasmo la lotta per la pace, il bene della pace, è davvero il pensiero dominante, il punto di raccordo e la radice di tutto il suo umanesimo cristiano, del suo cristianesimo evangelico» (Eugenio Garin, Erasmo, Edizioni Cultura della Pace 1988, p. 7)
Tra le opere di Erasmo per la pace il Dulce Bellum Inexpertis mi sembra quella di maggiore interesse per noi oggi. È uno degli Adagia, sviluppato in un trattatello, e contiene una analisi dell'antropologia e della politica di guerra, denuncia l'ignoranza della realtà da parte di chi promuove le guerre, porta argomenti non solo morali, ma anche di convenienza contro le guerre, con molto realismo, afferma la piena incompatibilità della guerra col Vangelo, cerca e propone un superamento non solo morale, ma anche nel sistema politico internazionale, della pratica della guerra legata ai poteri politici e alle culture.
Perciò scelgo, come mio contributo alla memoria comune, di ripercorrere in sintesi questo scritto del 1515, quando Erasmo ha 49 anni, come invito alla lettura diretta.
(Riassumo il testo – tra virgolette frasi salienti letterali - da Eugenio Garin, Erasmo, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1988, che tiene conto della traduzione di Silvana Seidel Menchi, con testo latino a fronte, nel volume da lei curato, con Introduzione di LXXI pagine, Erasmo da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, Einaudi 1980).

OOOO

1. In molte cose l'inesperienza inganna.
2. Ciò è specialmente vero per la guerra, oggi trionfante (la fanno anche i cristiani, e preti e vescovi, e giuristi e teologi soffiano sul fuoco), al punto di capovolgere il giudizio su di essa, che è cattiva e dannosa.
Primo problema: da dove viene la guerra? É necessaria un'indagine filosofi­ca.
3. Guardiamo l'immagine dell'uomo: il corpo è fatto per l'amicizia, non per la guerra. La natura lo ha fatto nudo, inerme, tenero. Nasce bisognoso, debitore alla benevolenza altrui. È nato alla gentilezza e all'amore, ha braccia per abbracciare, e il gusto del bacio in cui le anime si incontrano, ha il riso e le lacrime. Solo all'uomo la natura ha dato il linguaggio e la ragione, per l'amicizia, e perché nulla si faccia per forza. Nulla più necessario dell'amicizia e nulla più dolce. La passione del sapere unisce più del sangue. Nell'uomo c'è una scintilla della mente divina, è immagine di Dio, per cui gode del bene, anche senza premio, perché l'uomo è caro all'uomo, e perfino gli animali se ne sentono protetti.
Ecco invece l'immagine della guerra: ha aspetti orribili, causa gli effetti più gravi: il combattente uccide colui che non l'ha offeso nemmeno con una parola. Anche i guai minori sono sempre terribili, danni fisici e materiali. Soprattutto, la guerra causa rovina morale, corrompe la vita. Una guerra genera altra guerra.
4. L'origine della parola bellum dice che è azione di uomini-belve, per di più fabbricanti di strumenti omicidi. Le belve combattono per pochi precisi motivi, e non si fanno guerra intraspecifica ed estesa, come facciamo noi. La Natura osserva stupita: perché l'uomo è degenerato in belva?
5. A tale straordinaria follia dell'uccidersi l'un l'altro si deve esser giunti per gradi. I mali si insinuano con la maschera del bene. Dapprima la difesa da bestie feroci, si dà gloria a chi meglio le uccide, anche oltre il necessario, così ci si abitua all'uccidere anche animali miti per mangiarli, e infine, nell'ira, anche a colpire uomini, con poca fatica. Eliminare l'avversario sembra giustizia, uccidere un tiranno dà gloria. Avvengono scontri fra gruppi, cresce la furia, si sviluppano le armi. La guerra dà gloria. Eppure c'erano anche limiti, regole, poi superate, per lucro più che per la gloria. Dal sangue umano sparso nascono gli imperi. I potenti ottusi e disumani non vogliono capire.
6. La guerra è dilagata, tutti contro tutti, e persino il cristiano contro il cristiano. Nessuno se ne meraviglia, nessuno condanna. C'è chi applaude, e chiama santo ciò che è diabolico, e benedice la guerra - «Dio combatterà per te» - e ne fa un sacramento. Falsificano i profeti, la preghiera, la croce. Abbiamo sentito da monaci, teologi, vescovi, prediche bellicose. Si scontrano eserciti con l'insegna della croce, che da sola ammonisce. Si fa Cristo spettatore e autore dell'empia reciproca strage. La guerra è il regno del demonio, un qualsiasi postribolo sarebbe meglio, e noi vi trasciniamo Cristo. Per cause lievi, ci facciamo più feroci dei pagani e dei barbari. Per di più, sono istigatori, esortatori e complici i rappresentanti di quel pontefice1 che dovrebbe pacificare e unire tutti coloro (come i vescovi) che salutano il popolo con l'augurio di pace: «Pax vobis».
7. Dopo il confronto tra l'uomo e la guerra, paragoniamo ora la guerra con la pace: la cosa più scellerata e miserabile con la più felice e la migliore. La pace è l'amicizia reciproca di molti. Se l'amicizia tra due persone è tanto dolce e gradevole, quanto sarà felice l'amicizia tra regno e regno, tra popolo e popolo! I beni, quanto più sono diffusi, tanto più vantaggio recano. «Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia anche le grandi vanno in malora». La pace è madre e nutrice di tutte le cose buone. Ma appena esplode la crudele guerra, eterno Dio, quale immenso oceano di malanni sommerge tutto! È tanto più facile nuocere che fare del bene! «Tacciono le leggi», si ride della gentilezza dei costumi, ci si fa gioco della religione. La gioventù si corrompe, i vecchi imprecano contro una vita troppo lunga. Nessun conto si fa più degli studi liberali.
«Le guerre, forse, si potrebbero sopportare, se ci rendessero solo disgraziati, e non anche malvagi e perfidi,2 e se la pace ci facesse solo più felici, e non anche migliori. Empio, perciò, è chiunque provoca la guerra». Tutti i mali naturali che possono capitarci, e che non possiamo evitare, ci rendono solo disgraziati, ma non malvagi. La guerra è il male più atroce e pernicioso, che da solo tutti li comprende e li supera. Mentre i benefici della pace si diffondono per moltissimi, se c'è un bene dalla guerra ne godono pochi e per di più indegni. La salvezza e ricchezza dell'uno è morte e miseria dell'altro. Non so se mai una guerra sia finita così bene da non far pentire il vincitore, se è saggio. Possiamo ritenere sano di mente chi, potendo ottenere la pace con poca spesa, si procura la guerra a prezzo di tanti mali? Il danno morale della guerra è più grave di quello fisico3
8. Già l'inizio di una guerra è pieno di spese e di danni. Chi può elencare i disagi che «gli stupidissimi soldati» sopportano al campo (e se li vanno a cercare!). «Servire i capi, prendersi legnate: non c'è schiavitù peggiore di quella del soldato». Poi, si va a uccidere crudelmente, o a essere miseramente uccisi. «Affliggiamo noi stessi con tanti malanni, per poter affliggere gli altri». Potremmo ottenere la pace con un decimo delle pene, delle spese, e del sangue che la guerra richiede. Coi pericoli e il lavoro per abbattere un castello, potevi costruirne un altro molto più bello, e senza pericoli. È roba da matti accettare un grande malanno sicuro, quando è ancora incerta la sorte della guerra 4.
9. Ma se i pagani possono essere stati travolti da questa follia infernale, come mai noi cristiani abbiamo impugnato la spada contro cristiani? È peggio di un fratricidio. I cristiani sono uniti da legami più forti di quelli naturali. Cristo riconobbe come suo un solo precetto: l'amore. Che cosa, più della guerra, è contro l'amore? Cristo ai discepoli non lascia niente altro che la pace. Al Padre chiede soprattutto che essi siano tutt'uno con lui. In tutta la sua dottrina non trovi altro che pace, mitezza, le beatitudini proclamate, il disprezzo di ciò per cui il mondo si batte: la ricchezza, la superbia. Vietò di resistere al male. Tutta la sua vita fu mansuetudine, e così vinse sul mondo. Così insegnano anche gli Apostoli. E allora, perché sì gran tumulto di guerra tra i figli della pace? Cristo è la vite, noi i tralci; la chiesa è corpo di Cristo capo, e noi le membra: dovremmo essere immagine in terra della città del cielo. E invece vi si trovano turpitudini che Cristo condanna, forse peggiori che fra turchi e saraceni.
10. Come si è insinuata questa peste nel popolo cristiano? Col pretesto di sconfiggere gli eretici si insinuò il gusto ambizioso della disputa. Si giunse al punto di mettere al centro della teologia Aristotele, in modo che la sua autorità è quasi più santa di quella di Cristo. Distorciamo i precetti di Cristo, ma non discutiamo gli oracoli aristotelici. Cercare di combinarli è come mescolare l'acqua col fuoco. Abbiamo distorto la dottrina evangelica per metterla d'accordo col diritto romano. Il quale insegna che vim vi repellere licet, approva i traffici e l'usura, esalta la guerra giusta, cioè se dichiarata dal principe, non importa se bambino o idiota. La dottrina di Cristo è talmente corrotta da dialettici, sofisti, matematici, filosofi, giuristi, che se arriviamo a consultare i libri sacri, imbevuti dai dogmi di tutti costoro, deformiamo le leggi di Cristo. Come se la sua dottrina non potesse essere di tutti, come se potesse accordarsi con la sapienza dei filosofi. Abbiamo, noi cristiani, preteso onori, trattenuto ricchezze dateci per i poveri, fino a ritenere che il ricco sia il migliore. Abbiamo onorato la ricchezza più dei pagani. Ad onori e ricchezze parve convenire anche un certo potere, al punto che il vescovo non si sentiva vescovo se non possedeva un potere temporale. Infine, abbandonato ogni pudore, abbiamo raggiunto e superato i pagani in ambizione, lusso, tirannide.
11. Quando mai i pagani si sono fatti guerra con la crudeltà con cui i cristiani combattono tra loro? Quante stragi abbiamo visto in questi pochi anni! E poi ce la prendiamo con i turchi, a cui, con le nostre lotte fratricide, diamo lo spettacolo a loro più gradevole. Serse, Alessandro Magno, che Seneca chiama «briganti furiosi», combattevano più umanamente di noi, non avevano le nostre macchine belliche, i loro motivi non erano inconsistenti come i nostri. Nelle storie dei pagani trovi condottieri che preferirono vincere il nemico con la generosità, col parlare, prima che con le armi. Noi, pseudocristiani, non perdiamo occasione di guerra. C'erano regole, cerimonie del “feciale”, per moderare la violenza dello scontro. Catone il vecchio scriveva al figlio militare di chiedere al comandante il permesso di incontrarsi col nemico. Il giuramento militare toglieva la facoltà di uccidere, appena dato il segnale di ritirata. «Nessuno credeva lecito uccidere, a meno che non fosse costretto da necessità». Oggi, fra noi pseudocristiani, è detto uomo forte chi uccide e deruba un cittadino disarmato della nazione nemica. Si chiamano soldati quelli che, per i soldi, vanno a combattere da una parte o dall'altra, e non ci fanno orrore come ci fa il boia. Chi ruba una veste è un infame, chi depreda tanti innocenti in guerra è annoverato fra i cittadini dabbene. Il soldato più feroce diventa il capo nella guerra successiva. I monarchi cristiani sono peggiori dei monarchi pagani, che civilizzavano le provincie conquistate. Noi imitiamo e superiamo solo ciò che era pessimo nei pagani.
12. In che modo noi difendiamo questa così grande follia? Dicono: se la guerra non fosse lecita, Dio non avrebbe mandato gli ebrei contro i nemici. Sì, ma combattevano solo contro stranieri ed empi, e noi tra cristiani! Se ci piace tanto l'esempio degli ebrei, perché non ci tagliamo anche il prepuzio, non immoliamo vittime, e non prendiamo parecchie mogli? La guerra è loro permessa, come il ripudio, per la «durezza» del loro cuore. Ma Cristo ordinò di riporre la spada: ai cristiani è lecita solo la guerra bellissima contro la cupidigia, l'ira, l'ambizione, la paura della morte, i veri nemici della chiesa. «Solo questa è la guerra che genera la vera pace». Alcuni intendono le due spade come i due poteri, civile ed ecclesiastico, rivendicati dai successori di Pietro. Ma Cristo disarmò Pietro, proibendo quella guerra che prima sembrava lecita. Cristo non approvò la difesa con le armi, ma insegnò solo la pazienza. Mandò i suoi dai tiranni armati solo del bastone da pellegrino e dalla bisaccia. I martiri non si sono mai serviti della spada. Si accampano poi varie formule rabbiniche per giustificare chi fa guerra, chi la dirige, chi la giustifica, e si svalutano gli insegnamenti di Cristo: così si dà avallo religioso alla cupidigia dei principi, e si fa di Cristo un banditore di guerre. Cristo indica il fine dello sforzo morale, non dà le misure del permesso e del vietato5. Oggi passa per eretico chi esorta a fuggire la guerra, e per campione di ortodossia chi toglie forza al Vangelo. «Ma un dottore davvero cristiano non approva mai la guerra; e se, forse, in qualche momento la ammette, lo fa suo malgrado, e con dolore».
13. Si fanno obiezioni a favore del diritto di guerra. È diritto di natura e consuetudine respingere la forza con la forza. Risposta: ma il vangelo va oltre, ci comanda di fare del bene a chi ci fa del male. Obiettano ancora: queste cose riguardano gli Apostoli. No: riguardano tutti quelli che sperano in Cristo. Chi si ride di lui combatte per il denaro e il potere, ma questa è morte più che vita. Ci obiettano casi di papi e padri della chiesa a favore della guerra. Rispondiamo: è tradizione non univoca; e comunque, perché seguire esempi equivoci, divergenti dalla parola chiara di Cristo? Dicono ancora che, come è lecito giustiziare un reo, sarà lecito punire una città con la guerra. Ma in giudizio c'è il primato della legge; la guerra è giudizio in causa propria, e la pena va su migliaia di innocenti. I vantaggi della guerra sono per i briganti. In tribunale si punisce uno per il bene di tutti; in guerra sono puniti tutti, benché inno­centi. In conclusione: meglio pochi colpevoli impuniti che condannare, con loro, tutti gli innocenti. E ancora ci dicono: la guerra è diritto dei prìncipi. Per uno come me è rischioso discutere troppo arditamente degli affari dei principi. Dirò solo che tutti avrebbero qualche diritto da rivendicare. Il governo è amministrazione, non possesso. Non si ha diritto sugli uomini, liberi per natura, come sul bestiame. Il diritto dei prìncipi viene dal consenso del popolo, che può toglierlo. È un diritto che i prìncipi rivendicano per sé, non per la giustizia.
14. In ogni caso, la guerra non conviene. Se non hai animo di principe abbi almeno l'animo del mercante, che considera un guadagno cavarsi da un pericolo con una piccola perdita. Se consideri vantaggi e svantaggi, «ti accorgi che è molto meglio una pace ingiusta di una guerra giusta». Chi andrebbe a pescare con un amo d'oro? Piuttosto che spargere sangue cristiano, lascerei a chiunque ogni suo preteso diritto. E poi, che bisogno c'è di correre subito alle armi? Il mondo è pieno di personalità sagge, di assemblee e senati istituiti dai nostri padri: perché non rimettere al loro arbitrato le bizze dei principi?
Più degno di rispetto è l'argomento della difesa della chiesa. Ma il popolo è la chiesa. E la dignità della chiesa non sta nei soldi dei preti, e la chiesa non è nata e cresciuta su guerre e stragi, ma sul sangue dei martiri.
15. A me, poi, non sembra da approvare il nostro continuo preparare la guerra contro i turchi. Sarebbe una misera religione cristiana se la sua salvezza dipendesse da questo. Non si fanno buoni cristiani, così. «Quel che la spada dà, la spada toglie». Vuoi convertire i turchi a Cristo? Mostra non ricchezze, eserciti, potenza, ma i caratteri del cristiano: vita pura, volontà di far bene, anche ai nemici, sopportazione delle offese, disprezzo del denaro e della gloria. Queste sono le armi per assoggettare i turchi. Ora, invece, combattiamo i malvagi da malvagi. Dirò arditamente: se togliamo il nome della croce, siamo solo dei turchi contro altri turchi. Una religione militare va difesa con la guerra. Perché non fidiamo nel presidio di Cristo? Ma chiedono: perché non posso sgozzare quelli che ci sgozzano? Io rispondo: non puoi tollerare che qualcuno sia più scellerato di te? «Credi davvero che sia da cristiani trucidare quelli che noi consideriamo empi, ma che pure sono uomini per la cui salvezza Cristo è morto?». Il diavolo si rallegra due volte, perché è stato ucciso un uomo, e perché a ucciderlo è stato un cristiano. Molti che vogliono apparire cristiani fanno ai turchi il maggior male possibile, li maledicono come eretici e dimostrano così di essere loro i più veri eretici. Chi vuol essere ortodosso cerchi con miti argomentazioni di far ricredere chi è nell'errore. Se gli antichi predicatori del vangelo avessero avuto con noi l'animo che noi abbiamo coi turchi, dove saremmo noi, che siamo diventati cristiani per la loro tolleranza? «Aiuta i turchi, e, se puoi, da empi rendili pii; se non puoi, prega, e io riconoscerò in te l'anima del cristiano».
Oggi molti ordini di monaci vogliono apparire colonne della chiesa, ma quanti darebbero la vita per diffondere la fede? Se avessero i costumi di Domenico, di Francesco, degli Apostoli! Oggi quelli che si vantano vicari e successori di Pietro ripongono tutta la loro fiducia nelle sole possibilità umane. Vivono in modo che è più facile che si corrompano loro stessi più che rendere migliori gli altri. Servono la tirannide dei principi, vanno a caccia di quattrini, si mostrano attivi a censurare proposizioni eretiche, regnano con danno del popolo cristiano più che estendere con loro rischio il regno di Cristo. «Quelli che noi chiamiamo turchi sono inn gran parte quasi cristiani, probabilmente più vicini al vero cristianesimo della maggior parte dei nostri». Togliamo la trave dal nostro occhio prima della pagliuzza dall'occhio del fratello. Chi ci presterà fede se tutta la nostra vita è preoccupazione del mondo? Cristo non spezza la canna incrinata (Matteo 12,20) e noi, invece, «ci apprestiamo a distruggere in guerra Asia e Africa, anche se ci vivono tanti cristiani o quasi cristiani. Perché non cerchiamo di riconoscerli, di averne cura, di renderli migliori con la dolcezza? In realtà, se vogliamo solo estendere i nostri domini, perché coprire col pretesto di Cristo una cosa tanto profana?».
Qualcuno dirà: Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Ma questo vale per chi confida solo in Dio, e non nelle armi. Cristo Gesù dice: Chi di spada ferisce, di spada perirà. Allora, imbracciamo la spada del vangelo e lo scudo della fede. «Accadrà così che vinceremo veramente allorquando saremo vinti». Ma supponiamo di vincere la guerra. Chi mai ha visto fare dei veri cristiani col ferro, la strage, gli incendi? «È minor male essere turchi o giudei sinceri che cristiani ipocriti». «Io preferisco un turco autentico a un falso cristiano». «Per trasformare i turchi in cristiani cattivi e falsi, noi renderemo ancora peggiori tanti cattivi cristiani». Ho un sospetto che la guerra contro i turchi sia annunciata per spogliare il popolo cristiano, che sopporti la tirannide dei principi civili ed ecclesiastici.
Non condanno del tutto la guerra contro i turchi, se sono loro ad assalirci. Voglio che la guerra in nome di Cristo sia condotta con animo cristiano e mezzi cristiani. I turchi vedano che sono invitati alla salvezza, non braccati come prede. La nostra professione di fede sia semplice e davvero apostolica, senza troppe aggiunte umane. Su pochi punti il consenso sarà più facile e duraturo. Di tutto questo dirò più ampiamente nel libro Antipolemos6, che scrissi a Roma, dedicato a Giulio II.
Quasi tutte le guerre dei cristiani nascono da stoltezza o malvagità di giovani principi, infiammati da stupide storie, istigati dagli adulatori, eccitati da giuristi, teologi e vescovi. Cominciano per leggerezza e devono poi imparare, a prezzo di tante sventure, che «la guerra va fuggita in ogni modo». In tempo di pace, le leggi e le istituzioni pongono limiti alla volontà dei principi. In guerra, il capriccio di pochi è il potere supremo. Poi nascondiamo le nostre colpe sotto formule onorevoli: la difesa della religione, il diritto canonico, i patti infranti, … Ma non ottengono mai quello che vogliono e piombano in altri guai. E se finisce nel migliore dei modi è merito della fortuna, che, potente in tutto, nella guerra è potentissima. Se l'orgoglio ti spinge alla guerra, devi implorare dei barbari, uomini colpevoli di ogni genere di misfatti, perché è con gente simile che si combattono le guerre: così ti devi umiliare all'ultima feccia dell'umanità. Se è il guadagno che ti spinge, fai bene i tuoi calcoli. Fai guerra per lo Stato? Ma è per la guerra che gli Stati vanno in malora. Se ami davvero i tuoi, chiediti: perché espongo a ogni malanno questa gioventù così fiorente? Perché privare tante spose dei mariti, e tanti figli dei genitori? Perché sostenere qualche dubbio diritto col sangue dei sudditi? Sarebbe stato prudente considerare tutto questo, sarebbe stato cristiano fuggire e scongiurare un evento tanto diabolico, tanto lontano dalla vita e dalla dottrina del Cristo.
«Se poi la guerra non si potrà evitare in nessun modo, data la malvagità dei molti, quando nulla più resterà di intentato, quando per amore della pace si sarà fatto tutto, l'unica cosa che rimarrà ancora sarà adoperarsi perché l'infame impresa sia fatta da infami, e si concluda col minor spargimento possibile di sangue».
Se, infatti, ci adopereremo per essere davvero cristiani, se avremo l'innocenza, l'amore, la pazienza, se sapremo superare con i benefici l'ingiuria recataci, «quale mai guerra potrebbe scoppiare tra noi per motivi inconsistenti? Se invece Cristo è una favola, perché non lo eliminiamo francamente?». Se riconosciamo il suo magistero, allora mostriamolo, e non con scritte e insegne, ma con la nostra vita. «Facciamo nostra la causa della pace, perché Cristo a sua volta riconosca i suoi». Si adoperino i pontefici, i principi, le città. Se il popolo si agita, sia ricondotto all'ordine da principi, che devono essere nello Stato come l'occhio nel corpo e la ragione nell'anima. Se invece sono i principi a turbare la pace, compete alla saggezza e autorità dei pontefici ricomporre i disordini. «Ma non siamo ancora sazi di guerre, che non finiscono mai, e non sentiamo il desiderio della pace?». Lo esige il mondo stanco di sventure, ci invita Cristo, ci esorta il pontefice Leone decimo, vero vicario in terra del pacifico Gesù Cristo. Egli si adopera perché la chiesa fiorisca non già per ricchezza e potere, ma per i propri pregi. La gloria della guerra circondi pure Giulio: «non sta a gente come me dire quanto tutto questo convenga a un pontefice. Dio solo sa che la sua gloria è legata al dolore e alla morte di moltissimi uomini. Ben più vera gloria darà al nostro Leone la pace restituita al mondo». 
 
1 Erasmo allude a Giulio II, che l'11 novembre 1506 vede entrare trionfalmente a Bologna. Sulle guerre di questo papa scrive l'Antipolemos, opera perduta. Giulio II muore nel 1513. Compare il dialogo Julius exclusus e coelis, attribuibile ad Erasmo.
2 Qui Erasmo anticipa quel chiaro pensiero di Kant in Per la pace perpetua: «La guerra è un male perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo». Così è tolta ogni giustificazione morale della guerra, come capace di togliere un male.
3 Cfr Primo Mazzolari: «La guerra è più che un pericolo, è un crimine» (Tu non uccidere, p.19 ed. 1965) .
4 La irrazionalità della guerra, specialmente nei nostro tempo, è stata proclamata nel modo più icastico da papa Giovanni XXIII: «È pura follia – alienum a ratione - pensare che. nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (Pacem in terris, 11 aprile 1963, n. 67).
5 Qui Erasmo dimostra una concezione non giuridicistica e casuistica, ma spirituale e dinamica, della morale cristiana. A questa comprensione è arrivata la teologia morale grazie al rinnovamento evangelico del Novecento.
6 Opera andata perduta.


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