Disobbedienza ed etica
di Enrico Peyretti
Al
prof. Leandro Limoccia per il Seminario sulla Disobbedienza civile
alle leggi ingiuste presso l'Università degli Studi di Napoli
Federico II. (2 marzo 2020)
Propongo
alcuni semplici appunti sul tema proposto "Disobbedienza
ed etica", attorno al dibattito sulla “disobbedienza civile
alle leggi ingiuste”. Questa disobbedienza non per nulla è detta
“civile”, cioè, non solo esercitata con atti nonviolenti, ma
pubblica, dichiarata lealmente nella civitas,
nell'agorà dei cittadini: non è la disobbedienza occulta, per un
utile proprio opposto al bene di tutti. In quanto leale, l'atto di
disobbedienza accetta la sanzione, e così rende omaggio al principio
della legge, pur negando obbedienza ad una determinata prescrizione
in quanto ingiusta, contraria, per la coscienza del disobbediente, ad
una superiore giustizia. L'obiezione di coscienza è una obiezione di
giustizia.
L'obiettore
non è un fanatico, non pretende di possedere un superiore
infallibile giudizio sulla ingiustizia delle legge disobbedita, ma
testimonia che la propria coscienza avverte quella ingiustizia, a cui
non può obbedire. L'obiettore di coscienza, che resta un cittadino
leale, accetta la discussione, può venire persuaso e cambiare
convinzione («Solo
gli dèi e i folli non cambiano mai opinione»
secondo un ripetuto aforisma). Ma può anche convincere altri che
quella determinata legge deve essere modificata per renderla più
giusta. Si può dire che contestare una legge con atti di resistenza
senza violenza, è partecipare al più ampio lavoro di legislazione,
compiuto non solo dai legislatori, ma da tutta la società, dalla
cultura diffusa in continua maturazione, anche a partire dalla prassi
stimolante di qualcuno più sensibile alla giustizia mancata (cfr
Rodolfo Venditti, L'obiezione
di coscienza al servizio militare,
Terza edizione, Giuffré, Milano 1999)
*
* *
La
coscienza umana robusta e formata obbedisce alla legge giusta della
società, non passivamente, ma interiorizzandola, facendola propria,
per rispetto e solidarietà con tutti gli altri; perciò obbedisce
anche a se stessa, realizza liberamente uno scopo comune che essa
riconosce buono. Per agire così, la coscienza libera vaglia le
leggi, obbedisce non all'autorità in quanto tale, ma al bene comune
al cui servizio l'autorità è istituita; e obbedisce perché
constata che il comportamento prescritto è utile al bene comune. La
coscienza libera è anche capace di non seguire pedissequamente la
lettera della legge, di modificarla nell'azione, affinché realizzi
meglio il suo fine, oppure di non applicarla per nulla, se la trova
ingiusta o dannosa.
Invece,
la coscienza debole, incerta, passiva, riceve la legge da fuori, la
obbedisce per evitare la sanzione, senza farne proprie le ragioni e
il fine. Si può paragonarla ad una schiena debole, rotta, che non
può stare ritta da sola, a cui occorre applicare un forte rigido
busto che la sostenga.
Nella
società ci sono cittadini dalla coscienza forte e altri dalla
coscienza debole. Come regolarsi nella loro relazione? Non si può
costringere gli uni al comportamento degli altri, perché entrambi
falserebbero la propria coscienza, mancherebbero al rispetto di se
stessi. Troviamo un esempio antico affrontato con saggezza.
Nella
comunità cristiana primitiva di Corinto, alcuni ritenevano peccato
mangiare la carne che era stata sacrificata agli idoli, venduta sul
mercato. San Paolo, scrivendo a questi cristiani, dice di sapere che
gli idoli sono nulla e dunque egli è libero di mangiare quella
carne, ma se ne astiene per non scandalizzare – far inciampare,
fare agire contro coscienza - il fratello dalla coscienza debole.
Questi, però, non deve giudicare la sua libertà (cfr Prima
Corinzi
8 e 10, 29-30). Ecco la regola: il forte non scandalizzi il debole, e
il debole non giudichi il forte nella sua libertà. Ciò vale, mi
sembra, per ogni comunità umana, dove le coscienze si confrontano in
modi diversi, con maggiore o minore autonomia, con la legge in vigore
commisurata ad una più grande verità e giustizia, che è anzitutto
il rispetto reciproco.
L'obiezione
di coscienza è un moto intimo, alla radice profonda dei
comportamenti esterni, che paragona la legge e la sua osservanza con
istanze più grandi, che sente inviolabili. Se ne vede un esempio nel
vangelo: «Poiché
io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi
e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli»
(Matteo
5, 20). La coscienza che sorpassa la legge corrente non impone nulla
agli altri, si impegna di persona. A maggior ragione la coscienza
obietta e disobbedisce quando una legge non rispetta la giustizia
fondamentale dei diritti inviolabili della persona umana. L'obiezione
è obbedienza all'istanza morale più alta e più intima di quanto
una legge riesca ad incarnare, ovvero è obbedienza a ciò che una
legge ingiusta non rispetta.
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* *
Ma
veniamo a confrontare un atto di disobbedienza di coscienza con i
principi generali dell'etica.
Obbedire
alle leggi della società cui si appartiene è cosa morale, come è
altrettanto morale l'epicheia,
o equità, che sottrae la giustizia all'astrattezza giuridica, la
applica al caso particolare, realizzandola nel modo migliore,
restituendola alla coscienza morale. Scriveva Italo Mancini: «Occorre
passare dall'idea di giustizia al travaglio dell'uomo
giusto,
al suo discernimento consapevole, alla sua azione ribollente, irta di
ostacoli, di crepe, di cadute e di riprese, ma sempre sorretta da una
percezione di luce che i ricordati principi non cessano di dargli, in
vista di un allargamento della terra […] Partendo dall'uomo giusto
è possibile delineare un éthos
concreto, in vista della fedeltà alla terra, alla città degli
uomini “che non è lecito abbandonare” (Agostino), in vista della
pace» (L'ethos
dell'Occidente,
Genova 1990, pp. 24-25
, citato da G. Piana, La
verità dell'azione.
Introduzione all'etica, Morcelliana, Brescia 2011, p. 268).
Spesso
gli obiettori di coscienza tanto al servizio militare quanto ad altri
aspetti problematici della legislazione si sono ispirati alla morale
cristiana. L'autore appena citato, Giannino Piana, autorevole in
questo campo, scrive pagine che trovo chiarificatrici, e che cito di
seguito, in forma riassunta (da In
novità di vita,
vol I - Morale fondamentale e generale, Cittadella editrice, Assisi
2012, pp. 418-423).
L'importanza
delle norme per orientare la condotta morale è fuori discussione. La
“norma” è un referente che va preso in seria considerazione come
dato dal quale non è possibile prescindere. Le norme tuttavia
presentano sempre un certo grado di astrattezza: tra esse e la
situazione concreta vi è spesso un salto che impone al soggetto un
intervento creativo, legato all'esercizio della libertà. Si tratta
di uno spazio vuoto, che può essere colmato solo dalla coscienza
morale del singolo, chiamato a verificare nei fatti la congruenza che
la norma possiede in relazione alle esigenze della situazione e alle
proprie reali possibilità di intervento su di essa. Già Aristotele
rilevava che la “legge” vale nella maggior parte dei casi, ma non
nella totalità: nella realtà ci sono situazioni emergenti nelle
quali il giudizio ultimo va lasciato alla decisione del singolo. La
tradizione del pensiero greco e medievale, per questo compito, ha
introdotto la categoria dell'epikeia
(in latino prudentia).
Questa “virtù” (così la chiama Tommaso d'Aquino) definisce
l'atteggiamento dell'uomo nei confronti della “legge”. Tale virtù
non entra in gioco soltanto quando la legge comanda qualcosa di
immorale, ma anche quando chiede al singolo qualcosa al di sopra
delle sue possibilità, oppure quando il singolo constata seriamente
che ciò che la legge richiede non corrisponde al vero bene della
comunità. Quando la norma è in conflitto con le esigenze della
giustizia naturale, oppure quando è incapace di interpretarne le
istanze, l'uomo non solo non è tenuto ad aderirvi, ma deve anche
opporsi ad essa. Se talvolta
l'epikeia
ingiunge di sottrarsi all'obbligo della norma, altre volte obbliga a
dare più di quanto la norma chiede, cioè quando l'adesione allo
spirito della legge richiede che si vada oltre ciò che la lettera
chiede. Insomma,
l'epikeia
tende a rivendicare la superiorità della giustizia naturale su
quella legale.
Ma
quale rapporto deve darsi tra ordine morale e ordine legale? E con
quali criteri va determinato il dovere di obbedienza o meno alle
leggi positive? Sulla prima domanda si può dire: l'ordine giuridico
riguarda la condotta della persona su questioni di rilevanza sociale;
l'ordine morale riguarda l'intera condotta umana. Nell'ordine
giuridico ha grande importanza l'efficacia;
nell'ordine morale l'unico criterio è la rispondenza ai valori.
Sulla
seconda domanda, sul dovere di obbedienza: è chiaro che la legge
“giusta” obbliga in coscienza, come la legge “ingiusta”
(immorale) non è in coscienza vincolante. La questione è più
complessa nella “zona grigia”, dove occorre un attento
discernimento. Sia l'imperfezione della legge, sia il pluralismo
etico presente nella società, accrescono la distanza tra ordine
legislativo e ordine morale. Spesso il legislatore deve valutare sia
l'efficienza sia la tolleranza. Il cittadino, più che con leggi
apertamente ingiuste, si confronta con leggi che, per la complessità
dei casi, lasciano scoperta la tutela di alcuni valori a cui la sua
coscienza tiene. Il discernimento è delicato: deve tener conto dei
valori in gioco, della natura specifica della legge, del contesto
sociale, dell'effetto possibile.
L'obiezione
di coscienza è l'applicazione del principio dell'epikeia,
in alcuni casi legittimo, in altri anche doveroso. Nella Bibbia, già
nel Primo Testamento, e ancor più decisamente nel Secondo,
personaggi significativi, di alto impegno spirituale, e il Cristo
stesso, scelgono di dissentire nei confronti della legge della
società, per obbedire a una legge superiore, che sentono venire da
Dio nella loro coscienza.
Quando
l'epikeia
chiede disobbedienza, questa intende essere disobbedienza etica.
L'obiezione
di coscienza deve essere ben ponderata nelle sue condizioni. Il
motivo etico che la giustifica è l'opposizione di una legge ad un
valore fondamentale per la coscienza. Naturalmente, la complessità
delle situazioni, e il pluralismo delle concezioni etiche rendono
difficile il giudizio sulla correttezza morale delle leggi. Questa
correttezza va definita non in base ad un'etica particolare, ma
tenendo conto anche della convergenza, sia pure minimale, dei diversi
sistemi di valori, in vista del bene comune. Tuttavia, il
riconoscimento pubblico del diritto all'obiezione di coscienza (in
Italia relativo al servizio militare, all'aborto) è un'importante
conquista di civiltà. Il legislatore, rinunciando a far valere a
tutti i costi le esigenze della legge per rispetto della coscienza
personale, non dimostra debolezza, ma piuttosto l'autorevolezza di
un potere consolidato, che riconosce i limiti naturali della legge e
rispetta il sentire morale autentico delle singole persone.
Considerate
queste chiarificazioni di Piana, possiamo concludere che la
disobbedienza dell'obiettore, dove la legge non prevede l'esenzione
per motivo di coscienza, non si oppone all'etica della convivenza
regolata, non disconosce la necessità della legge (non è semplice
anarchia individualistica, come appare a cittadini superficiali),
perciò non viola l'etica, ma contribuisce al suo possibile sviluppo.
La disobbedienza di coscienza è un atto etico. Questa
disobbedienza, a caro prezzo, dove non è inclusa in una legalità
più evoluta, è evoluzione della legge verso una maggiore
corrispondenza all'etica umana. La disobbedienza
così motivata è obbedienza ad un'etica vissuta nella coscienza:
questa disobbedienza obbedisce.
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Vorrei
concludere con un esempio semplice, lasciando da parte i casi più
noti di disobbedienza etica ad una norma per obbedire ad una norma
superiore. Dire la verità è indubbiamente un alto dovere morale. Ma
«che cosa significa dire la verità?» (Dietrich Bonhoeffer, Etica,
Bompiani 1983, pp. 307 e ss.) .
«Un
maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che
suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega.
(…) Egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una
verità, cioè che la famiglia è un'istituzione sui generis nella
quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. La risposta del
bambino è una bugia, ma una bugia che contiene più verità, ossia
che è più conforme alla verità che non una risposta in cui avesse
ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. In base alle
capacità che aveva, il bambino ha agito bene; la colpa della bugia
ricade esclusivamente sul maestro» (pp. 310-311). Quel bambino, per
istinto d'amore, ha fatto obiezione addirittura ad una alta legge
morale, ha disobbedito alla legge morale, ma solo perché questa
legge è stata usata dal maestro in modo immorale. «Dire la verità
non è dunque soltanto una questione di atteggiamento personale, ma
anche di esatta valutazione e di seria riflessione sulla situazione
reale» (p. 308). Quel bambino ha disobbedito alla norma astratta,
grande e preziosa ma astratta, del dire la verità, per obbedire alla
legge concreta dell'amore per suo padre, legge offesa dal maestro.
Maestro vero, in questo caso, è il bambino disobbediente, e cattivo
allievo è quel maestro senza rispetto per il bambino, rispetto che
vale più di una verità puramente fattuale.
ooooooooo
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