Note da un dibattito
Sulla
coscienza
Enrico
Peyretti - 11 Ottobre 2014
Annoto
qualche idea da un dibattito torinese (Circolo dei lettori, 11
ottobre 2014) sulla coscienza, attorno al libro di Carlo Augusto
Viano, La
scintilla di Caino. Storia della coscienza e dei suoi usi (Bollati
Boringhieri). È un ben informato e documentato libro di storia, che
stimola a discutere le interpretazioni che propone del fenomeno della
coscienza umana. Sembra di capire che, per Viano, vadano sotto il
nome di coscienza e di morale delle spinte esterne alla persona, o
autogiustificazioni utili del proprio agire. Scelgo qui di toccare
gli aspetti su cui mi sono sentito più interpellato, come
ricercatore per la nonviolenza, che comporta l'obiezione di coscienza
alle violenze, e come cattolico critico.
1 - Coscienza e religione
(specialmente cattolica)
È ben noto
che Pio IX nel 1864, nella Quanta
Cura,
come già Gregorio XVI, chiamava «delirio»
pensare che «la
libertà di coscienza e dei culti»
sia «diritto
proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge
in ogni ben ordinata società»
e pensare che i cittadini abbiano «diritto
ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna
autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano
palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti,
quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra
maniera».
Quanti affermano questo, predicano «temerariamente
la libertà della perdizione».
Se fosse «sempre
libero il diritto di disputare»,
non mancherebbero «coloro
che osano resistere alla verità e confidano nella loquacità della
sapienza umana».
«La
fede e la sapienza cristiane debbono evitare questa nociva vanità».
Ma
anche
la coscienza religiosa è storica, cammina col tempo, in meglio o in
peggio. L'infallibilità ecclesiale non è totale, momento per
momento; essa è fiducia di non essere abbandonati, sia pure
attraverso errori, difficoltà, temporanei smarrimenti.
Grandi
sostanziali mutamenti sono avvenuti da Pio IX al Concilio. Il card.
Bea spiegava che si doveva passare dal diritto della verità
oggettiva al diritto della persona che cerca la verità. Il Concilio
(Dignitatis
humanae,
sulla libertà religiosa, n. 3) stabiliva: «L'uomo
coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la
sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua
attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi
costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure
impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo
religioso».
Gli «atti
interni volontari e liberi»
della religione,
«con
i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio (...)
non
possono essere né comandati, né proibiti».
Vediamo
un commento di allora divenuto in seguito sorprendente: «Al di sopra
del papa, come espressione della pretesa vincolante dell'autorità
ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve
essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro
le richieste dell'autorità ecclesiastica. L'enfasi sull'individuo, a
cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che
in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi
sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un
principio che si oppone al crescente totalitarismo». Così Joseph
Ratzinger nel 1967-69, in
Commentary
on the documents of Vatican II,
vol. V, pag. 134, 1967-1969, New York; traduzione inglese da Das
Zweite Vatikanische Konzil, Dokumente und Kommentare.
Ma che cosa
impegna la coscienza? Hans Küng
cita Freud:
«Quando mi chiedo perché io abbia sempre aspirato a essere onesto,
pieno di riguardi e, per quanto possibile, buono con gli altri, e
perché non abbia cessato di esserlo quando mi accorgevo che in tal
modo mi procuravo delle noie, venivo preso in giro, perché gli altri
sono brutali e infidi – confesso che non so trovare una risposta»
(Freud, lettera a J.J. Putnam, 8 luglio 1915).
Poi
Küng chiede:
«Perché un delinquente (nel caso che non corra alcun rischio) non
deve uccidere i suoi ostaggi; perché un dittatore non deve fare
violenza a un popolo; perché un gruppo economico non deve sfruttare
il proprio paese; perché una nazione non deve iniziare una guerra?
(…) È sufficiente qui l' “appello alla ragione”, col cui
aiuto spesso si può giustificare tanto una cosa quanto il suo
contrario?». «Qual è in fondo il valore di un ethos, se non si
impone incondizionatamente, e non solo “ipoteticamente”? (…)
L'incondizionatezza del dovere non può essere giustificata
dall'uomo, in molti modi condizionato, ma soltanto da qualcosa di
incondizionato. (…) Ciò può essere soltanto la stessa Realtà
ultima, somma, che, ancorché non dimostrata razionalmente, può però
essere ammessa con ragionevole fiducia – comunque essa venga
chiamata, compresa e interpretata nelle diverse religioni» (Hans
Küng,
Progetto per un'etica mondiale. Una morale ecumenica per la
sopravvivenza umana,
Rizzoli, Milano 1991, pp. 73, 74, 75. La citazione di Freud è a p.
64). In ultima istanza, solo la libera coscienza personale può
cogliere questo impegnativo appello alla vita giusta.
Nel
dibattito, l'Autore ha affermato che gli ha sempre dato fastidio e
diffidenza l'idea di coscienza, cioè l'occhio di Dio che sempre ti
guarda. Quindi una forza esterna, non intima all'uomo. L'idea di
coscienza gli sembra comparire nei testi cristiani solo quando Paolo
si appella ad essa per superare i tabù ebraici, tanto che ha
“coscienza debole” chi non se ne libera. E poi quando Lutero
davanti a Carlo V dichiara: «Finché
non mi convincete, sono fedele a ciò che sento». Insomma, la
coscienza è piena di ombre, non ha consistenza, ma è usata come una
forza assoluta: le religioni – dice Viano - fanno guerre, è sui
confini religiosi che oggi scoppiano le nuove guerre.
2
– Evoluzione della obiezione di coscienza alla guerra
Anche
nella cultura della pace si è verificata una evoluzione della
coscienza. Dalla obiezione alla guerra (Tolstoj, Thoreau, Bertha von
Suttner; rifiuto personale della guerra da parte di tanti soldati,
anche nella prima guerra mondiale, in modo occulto, ma mossi dalla
coscienza del “non uccidere”) si è proceduto alla costruzione
della pace, mediante la nonviolenza attiva, la “trasformazione
nonviolenta dei conflitti” (Johan Galtung). Dal pacifismo (solo
rifiuto della guerra) quella cultura è cresciuta nella nonviolenza
attiva, la quale è conoscenza: l'analisi
della violenza (diretta, strutturale, culturale) vede che la violenza
non è solo la guerra; ed è
azione,
quindi pratiche di ribellione
senza violenza alla violenza del dominio. Ciò può avvenire con la
forza propriamente umana, cosciente: una larga non-collaborazione al
dominio, che ha bisogno di obbedienza per dominare. È nella
coscienza la forza che decide di non obbedire al comando ingiusto.
C'è
stata una evoluzione dall'astenersi dall'usare violenza,
all'intervento nonviolento: corpi civili di pace; prevenzione,
mediazione, riconciliazione mediante la presenza civile in zone di
conflitto. Ora ci sono proposte di legge per istituire la difesa
civile nonviolenta, e la formazione scientifica di mediatori nei
conflitti.
La
cultura nonviolenta (ricerca, educazione, azione) procede dalla
coscienza che obietta
alla
guerra, alla ricerca attiva
sulle cause
delle guerre. L'obiezione
alla guerra come inaccettabile male
morale e follia
irrazionale (Pacem
in terris:
“alienum a ratione”; papa Francesco: “follia”) perché
contraddice la mia-tua umanità, cresce nell'azione-testimonianza,
che può arrivare al “sacrificio” di sé per non “sacrificare”
altri.
L'obiezione
morale disobbedisce alla guerra perché vi vede un assoluto teologico
che pretende padronanza divina sulla vita altrui: un potere divino di
de-creazione. Ora, credenti e non credenti hanno ragioni convergenti
per lottare insieme insieme contro un tale idolo.
La
violenza
viene giustificata come diritto di difesa (vim
vi repellere licet),
e oggi si parla di “dovere di proteggere”, ma con enormi sistemi
bellici che perpetuano forme e cause di violenza anche crescenti.
Quella giustificazione dipende dalla mancanza di conoscenza e di
esperienza delle possibilità effettive della forza nonviolenta, e
dalla assenza di ricerca di mezzi alternativi alle armi. È vero che
Gandhi parlava persino di “dovere di uccidere”, in totale assenza
di altri mezzi, per difendere altri, ma non voleva l'istituzione
dell'uccisione debordante, come è ogni apparato di guerra, comunque
giustificato.
3
– Consistenza della obiezione alla violenza
Con
la “ob-iezione” la coscienza si getta (latino iacere),
grida, contro qualcosa di inaccettabile. L'obiettore si oppone
accettando lealmente la pena, persino a costo della vita. Si tratta
di una “obbedienza” (latino ob-audire),
ascolto, attenzione e adesione ad “altro”, disobbedendo al
comando sentito ingiusto. Qui la coscienza sincera non viene solo
“usata” come motivo nobilitante, giustificante, ma anzitutto
“ascoltata”, anche con incomodo grave: il soldato nella prima
guerra mondiale che non uccide il nemico che ha a tiro; perfino
soldati tedeschi, a S. Anna di Stazzema e a Marzabotto, si sono
rifiutati di uccidere civili e sono stati uccisi con loro. Questi
hanno ritrovato e ascoltato, anche nell'estremo coinvolgimento, la
voce dell'unica umanità in se stessi come nelle vittime designate.
L'obiettore
obbedisce a una legge-valore: Antigone alla “legge non scritta”;
Socrate ascolta il “daimon” che gli impedisce di errare, con le
stesse parole di Pietro (in Atti degli apostoli 5,29): «Bisogna
obbedire
a Dio più che agli uomini»,
anche accettando la massima pena.
La
“scintilla di Caino” (che Viano dà come titolo al suo lavoro) è
l'accendersi, quasi la creazione, della sua coscienza, quando
esclama: «È
troppo grande la mia colpa, non merito perdono!» (Genesi 4, 13). Ciò
che l'accende non è solo la paura della pena, ma anche l'ascolto
del grido del sangue di Abele udito da Dio, che lo fa sentire a Caino
(Genesi 4,10).
Questo
“ascolto” dell'obiettore, un sì che è fondamento del no, è una
forma di “fede”, di fiducia-appoggiarsi-con/sistere, al di là di
ciò che si tocca in concreto. Eppure è «più
intimo a noi di noi stessi»,
come dicono sia il Corano
sia sant'Agostino. In quanto così consustanziale all'essere umano è
forza obbligante, non come sottomissione a forze esterne, ma come
consistenza e realizzazione dell'umano.
La
coscienza non è solo quella religiosa, come sembra dire il libro di
Viano, ma è l'umanità dell'uomo, quel sapere-e-non-del-tutto-sapere
chi sono io profondamente, e chi sei tu, per diventare davvero ciò
che siamo, ed essere all'altezza di ciò, cercando e ascoltando ciò
che dobbiamo a noi stessi. La coscienza che resiste e cerca è una
conoscenza ascoltante, né passiva né arrogante.
Infatti,
la fede, nel senso più ampio e comprensivo è – come dice Raimon
Panikkar - «la
costitutiva apertura
dell'uomo verso la trascendenza (o un Essere personale, nelle
religioni monoteiste; o una Realtà che ci comprende, nelle
filosofie-religioni orientali). È la consapevolezza di essere
in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è
aperto a questo "più". È un'apertura esistenziale, di cui
ogni uomo è capace. L'atto di fede, che salva [dal non-senso], è
l'atto con cui l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni
uomo ha coscienza costitutiva di questa sua apertura, poi, cerca di
far cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni.
Queste sono le credenze,
diverse dalla fede,
anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga,
inefficace» (miei appunti da una conferenza di Raimon Panikkar a St.
Jacques d'Ayas, Val d'Aosta, ottobre 1992, ma il pensiero è
ricorrente nelle opere di Panikkar).
Però
c'è anche una fede che è paradosso e sfida allo stato presente:
«Mentre
i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi
predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i
Greci» (prima lettera di Paolo ai Corinti 1, 22-23).
4
- Cultura critica attiva per superare le violenze
La
coscienza non è solo obiezione alla violenza, ma impegno attivo a
costruire
una cultura
critica sulle cause delle guerre e di ogni violenza, per
arrivare a forme di pace
giusta, di pace nonviolenta. Questo lavoro consiste nella
“trasformazione
nonviolenta dei conflitti” o “trasformazione dei conflitti con
mezzi pacifici”. Per Johan Galtung è un dialogo intrapreso da
molte parti esterne ai contendenti, guardando non solo al loro
comportamento violento, non solo alle loro ragioni contrapposte, ma
agendo sui loro atteggiamenti nella contesa, per indurli a forme non
distruttive di gestione del conflitto.
La
ricerca per vedere e togliere le cause del conflitto violento,
andando oltre l'esortazione morale individuale, nella cultura moderna
comincia con Erasmo (sentiero interrotto della modernità),
soprattutto nel “Dulce
bellum inexpertis”:
il suo punto di vista è cristiano, ma non di meno è semplicemente
umano. Quella ricerca fa un ampio passo con Kant, e con i progetti di
pace del suo tempo, fino, nel Novecento, al “diritto internazionale
dei diritti umani” (Antonio Papisca) e alle istituzioni e
convenzioni cosmopolite, oggi ancora troppo fragili: esse abbozzano
un diritto in cui i soggetti siano le persone, dotate del diritto
umano alla pace, e non solo gli stati, attori di un sistema
anarchico, dove ancora decide, di fatto, la pura forza.
Quella ricerca procede fino
alla teoria della “pace coi mezzi della pace”, agendo nel
conflitto con la prevenzione, l'interposizione, la riconciliazione.
L'ispirazione
della ricerca nonviolenta contemporanea è morale-religiosa (Tolstoj,
Gandhi, Lanza del Vasto, Giovanni XXIII , Ernesto Balducci, Rodolfo
Venditti, Tonino Bello, Thich Nhat Hanh, e vari altri), o
“liberamente religiosa” (Aldo Capitini, Movimento Nonviolento),
ma anche spesso semplicemente morale-laica (Danilo Dolci, Galtung,
Pontara, Patfoort, Krippendorff, ecc.). Di
tutti gli autori ora nominati soltanto Giovanni XXIII è presente nel
libro di Viano.
L'assunto
comune è il ripudio dell'uccisione-dominio (non solo l'uccisione),
in base all'intuizione che “mors
tua mors mea, vita tua vita mea”.
Questa
cultura nonviolenta attiva si basa su dati
di fatto e sull'uso di
una intelligenza immaginativa, euristica.
Le
lotte nonviolente per la giustizia sono storia, non pura utopia. Una
bibliografia storica “Difesa senza guerra” è reperibile online
(e nel mio blog: http://enricopeyretti.blogspot.com).
Antonino
Drago ha pubblicato questa scheda: su
323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un
centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al
26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente,
o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e
coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale
(Drago, Le
rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo,
Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010). Le fonti
di Drago sono
statunitensi: P. Ackerman e A. Karatnycky: How
Freedom is Won. From Civic Resistance to Durable Democracy.
Freedom House, Washington, 2005. M.J. Stephan e E. Chenoweth, Why
Civil Resistance Works,
International Security, 33, 1/2008, 7-44).
L'atteggiamento mentale non di sola registrazione dei fatti, ma di immaginazione euristica, liberante e costruttiva, risulta produttivo nella strategia di uscita dalla violenza, che non è destino insuperabile, né legge della storia. «Bisogna dire le cose premature. Essere realisti è essere creativi» (Johan Galtung al Centro Studi Sereno Regis, 1 giugno 2012). La filosofia dell'Utopia di Ernst Bloch e di teologi come Moltmann, sono un pensiero anticipante, che promuove e indirizza l'azione, oltre il fatto. E spesso si tratta non di anticipare, ma di rimediare a gravi ritardi. Così, la nonviolenza è una in-venzione (trovare, creare), ma è anche ricordare: è “antica come le montagne”, diceva Gandhi. Infatti, l'evoluzione della specie è più collaborativa (Erich Fromm) che principalmente selettiva. La storia umana è storia di collaborazione quotidiana, più che di scontro eliminatorio: essa è «un tessuto con degli strappi», e non è tutta strappi (Gandhi). Questa cultura non è solo un sentire (coscienza interiore), ma un operare (coscienza attiva). Fa delle analisi della realtà, e delle azioni. L'analisi della violenza distingue le sue forme maggiori: diretta, strutturale, culturale. Così permette di risalire dai comportamenti violenti alle loro cause nelle strutture sociali, nelle culture profonde (le civiltà-religioni-filosofie). Si può anche riconoscere la catena circolare, con effetto boomerang, delle violenze: Helder Camara indicava il ciclo “oppressione-ribellione violenta-repressione”. Per uscirne si deve imparare un'idea e pratica di ribellione davvero liberante, che non rimanga soggetta ad imitare la violenza dell'oppressione (teologie, filosofie e movimenti sociali della Liberazione). La violenza viene anche studiata come malattia dolorosa e inabilitante, e affrontata con metodo medico: diagnosi, prognosi, terapia (Galtung).
Il
concetto di pace
sottostante è una pace dinamica, un'idea regolativa, non è più la
“tranquillitas
ordinis”
degli antichi. È l'assenza di violenza in tutte le forme dirette o
indirette; è possibilità di sviluppo dei diritti umani; ha esigenze
e forme storiche varie e variabili; è giustizia, è armonia delle
differenze (R. Panikkar, T. Bello).
Le
azioni
di pace nei conflitti, prima che degenerino in guerra, sono la difesa
e l'intervento civile popolare, nonarmato, nonviolento.
5
– Coscienza di riconoscimento, condizione per la pace giusta
La
coscienza è un «abitare
con se stessi»
(Hannah Arendt, intervistata da Joachim Fest; in Anna Bravo,
Raccontare
per la storia,
Lezioni Primo Levi, Einaudi 2014, p. 137). Il contrario è l'essere
“fuori di sé”, come si dice dei matti.
La
co-scienza è [cercare di] sapere di sé, conoscere se stesso, essere
in sé, non fuori di sé. Ed è anche, la co-scienza, un
sapere-con-altri.
L'altro è con
me, come me; c'è il sapere insieme. Perciò si parla di “reciprocità
delle coscienze” (Bernhard Haering), fondamento della possibilità
del con-loquio, e del dia-logo: uno stesso linguaggio inter-lingua,
un incontro di significati anche per dire visioni diverse.
Fondamento, anche, della polis,
dunque della politica, che è vivere insieme, per il bene comune, ben
più che lotta per il potere.
Freud,
nel 1915, quando vede divampare la guerra (in Considerazioni
attuali sulla guerra e la morte,
in Riflessioni
a due sulle sorti del mondo,
Bollati Boringhieri 1990, p. 54) parla di «cattiva
coscienza per il sangue sparso»
nell'uomo primitivo, coscienza che non è più nell'uomo civile: la
guerra come una caduta indietro, è la perdita di quella
identificazione con l'altro, che è la civiltà, la cultura. Dunque
co-scienza è originariamente senso di identificazione con l'altro,
(ivi, p. 85), è sentire che anche nell'altro c'è la coscienza che è
in te. Questa, tuttavia, si
può offuscare, perdere.
Il
rischio nucleare totale, la minaccia di estinzione, oggi ancora
gravemente attuale, può e deve risvegliare una “coscienza
di specie” (Ernesto Balducci), nel tempo della “coscienza
atomica” (Günther
Anders, Norberto Bobbio).
Ancora
Freud : «Tutto
ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro
la guerra (…). La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui
si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “Ama
il prossimo tuo come te stesso”» (lettera in risposta ad Einstein,
Vienna, settembre 1932, op. cit., p. 85).
C'è
in noi un impulso di morte e distruzione, ma, nella stessa lettera,
Freud scrive: «L'altro tipo di legame emotivo è quello per
identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative
tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di identificazione. Su di
esse riposa in buona parte l'assetto della società umana».
Dunque,
l'umanità che non va contro se stessa, è quella che si riconosce
come composta di soci e non rivali, più soci che rivali, più
collaborativi che competitivi, società di persone comunicanti e non
atomismo di individui separati: ognuno è unico, ma non è separato.
«Siamo
fatti gli uni per gli altri» (Marco Aurelio; san Paolo)
La
coscienza di riconoscimento è una forza che frena la violenza:
l'altro vale come me. Ho raccolto una trentina di formulazioni, nelle
più varie culture umane, della “regola d'oro” (in Servitium,
n. 152, marzo-aprile 2004, Riconoscimento
e disprezzo,
pp. 103-108, s.egidio@servitium.it). Essa dice che l'altro vale come
me, che sono l'altro per lui. Ciò è valore e forza in tensione con
l'altra “pulsione”, di rifiuto, di morte, per la quale l'altro
non è me, io non sono lui.
La
coscienza di pace e nonviolenza è un atto di riconoscimento, che
rifiuta di eseguire azioni e ordini di offesa all'altro.
“Ama
il prossimo tuo come te stesso” ha, nella tradizione ebraica,
anche una lettura che dice: “Ama il tuo prossimo che
è te
stesso”. La coscienza sostanziale avverte che la
vita vale,
in me e in tutti.
Ma
c'è anche la posizione opposta, militarista, di negazione
della coscienza universalista umanitaria. Ho sentito con le mie
orecchie dal generale Carlo Jean, il quale, il 29 marzo 1996, a
Torino, parlava ad una platea di studenti, dire addirittura queste
letterali parole: «Nell’esercito
è necessaria l’esecuzione automatica dell’ordine, perché
combattere significa uccidere».
Questa frase è un condensato di nefandezze: l’obbedienza
automatica è roba delle macchine e degli oggetti, non degli uomini,
quindi il solo prospettarla disumanizza, degrada e corrompe le
persone. Obbedire al comando di uccidere è la negazione totale
dell’umanità: il potere e la logica di guerra devono imporre con
minaccia l'ordine di uccidere per superare la coscienza di
immedesimazione nell'altro, che è propria della nostra umanità
sana. Infatti, ci si può trovare costretti ad uccidere, in
situazioni tragiche estreme, per difendere la vita altrui, ma nessuno
può comandarlo ad un altro, senza ridurre l’uomo che uccide su
comando a oggetto meccanico, morto più dell’ucciso.
L'appello
alla coscienza può anche essere un abuso
per nobilitare un interesse.
Può essere manipolata, insincera, falsa. Ma proprio l'appello
abusivo dimostra l'importanza del riferimento alla coscienza: omaggio
del vizio alla virtù.
Enrico
Peyretti, 11 ottobre 2014
Appendice
Mencio, Vita tua vita mea
Non abbiamo solo l'istinto
violento, abbiamo anche una naturale inibizione ad uccidere l'altro,
che sentiamo valere come noi. Per superarla occorre un'operazione
culturale, la "costruzione del nemico", cioè la
de-umanizzazione dell'avversario, in modo da figurarcelo meno che
uomo. Abbiamo innato l'impulso naturale a salvare la vita altrui,
perché ciò è salvare la propria, cioè la qualità e umanità
della propria vita. Non so se qualcuno l'abbia detto meglio di
Mencio, in questa pagina famosa:
Testo di Mencio
«Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza.
(...) La ragione per cui affermo che tutti gli uomini hanno un animo
sensibile all'altrui sofferenza è la seguente: supponi che vi siano
delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per
cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di
apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa
reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti
con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere elogiati da
vicini ed amici, e neppure perché disturbino le grida del bambino.
Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono privi
di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della
compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e
dell'acquiescenza, e del senso di ciò che è giusto e di ciò che
non è giusto».
Mencio (Mengzi), filosofo cinese, 372-289 a.C.
Cfr. P.C.
Bori, S. Marchignoli, Per
un percorso etico tra culture.
Testi antichi di tradizione scritta, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1996, pp. 55-56; seconda edizione Carocci, Roma, 2003, p. 59.
Nella
stessa pagina, Pier Cesare Bori annota: «Il
sentimento dell’umanità, ren
zhi xin,
si esprime nel bu
ren,
“non sopportare le sofferenze altrui”.
Ren,
uomo, con l’aggiunta del segno di “due” significa “umanità”
secondo l’etimologia tradizionale. (Su ren,
cfr Scarpari, La
concezione della natura umana,
in Confucio
e Mencio,
Cafoscarina, Venezia 1991)».
Si
potrebbe usare questo ragionamento, e lo si fa, contro la nostra
argomentazione: «non sono uomini...», dunque vanno eliminati dalla
società umana !! Ma fa parte dell'umano l'evoluzione sia in peggio
sia in meglio, e nessuno può escludere il ricupero di un essere
umano all'umanità che ha negato in se stesso. Sopprimerlo sarebbe un
disumano fissarlo nella contraddizione con la sua natura. Credo,
infatti, che questo «non sono uomini...» sia da intendere non nel
senso apodittico, definitorio, ma descrittivo, come se dicesse: «non
vivono all’altezza umana, contraddicono la loro natura umana».
E.
P. (scheda su Mencio del 1996; rivista martedì 14 ottobre 2014)
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