martedì 28 aprile 2020

2014 11 ottobre - Note da un dibattito sulla coscienza

Note da un dibattito
Sulla coscienza
Enrico Peyretti - 11 Ottobre 2014

Annoto qualche idea da un dibattito torinese (Circolo dei lettori, 11 ottobre 2014) sulla coscienza, attorno al libro di Carlo Augusto Viano, La scintilla di Caino. Storia della coscienza e dei suoi usi (Bollati Boringhieri). È un ben informato e documentato libro di storia, che stimola a discutere le interpretazioni che propone del fenomeno della coscienza umana. Sembra di capire che, per Viano, vadano sotto il nome di coscienza e di morale delle spinte esterne alla persona, o autogiustificazioni utili del proprio agire. Scelgo qui di toccare gli aspetti su cui mi sono sentito più interpellato, come ricercatore per la nonviolenza, che comporta l'obiezione di coscienza alle violenze, e come cattolico critico.

1 - Coscienza e religione (specialmente cattolica)

È ben noto che Pio IX nel 1864, nella Quanta Cura, come già Gregorio XVI, chiamava «delirio» pensare che «la libertà di coscienza e dei culti» sia «diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società» e pensare che i cittadini abbiano «diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera». Quanti affermano questo, predicano «temerariamente la libertà della perdizione». Se fosse «sempre libero il diritto di disputare», non mancherebbero «coloro che osano resistere alla verità e confidano nella loquacità della sapienza umana». «La fede e la sapienza cristiane debbono evitare questa nociva vanità».
Ma anche la coscienza religiosa è storica, cammina col tempo, in meglio o in peggio. L'infallibilità ecclesiale non è totale, momento per momento; essa è fiducia di non essere abbandonati, sia pure attraverso errori, difficoltà, temporanei smarrimenti.
Grandi sostanziali mutamenti sono avvenuti da Pio IX al Concilio. Il card. Bea spiegava che si doveva passare dal diritto della verità oggettiva al diritto della persona che cerca la verità. Il Concilio (Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, n. 3) stabiliva: «L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso». Gli «atti interni volontari e liberi» della religione, «con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio (...) non possono essere né comandati, né proibiti».
Vediamo un commento di allora divenuto in seguito sorprendente: «Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell'autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell'autorità ecclesiastica. L'enfasi sull'individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo». Così Joseph Ratzinger nel 1967-69, in Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134, 1967-1969, New York; traduzione inglese da Das Zweite Vatikanische Konzil, Dokumente und Kommentare.
Ma che cosa impegna la coscienza? Hans Küng cita Freud: «Quando mi chiedo perché io abbia sempre aspirato a essere onesto, pieno di riguardi e, per quanto possibile, buono con gli altri, e perché non abbia cessato di esserlo quando mi accorgevo che in tal modo mi procuravo delle noie, venivo preso in giro, perché gli altri sono brutali e infidi – confesso che non so trovare una risposta» (Freud, lettera a J.J. Putnam, 8 luglio 1915).
Poi Küng chiede: «Perché un delinquente (nel caso che non corra alcun rischio) non deve uccidere i suoi ostaggi; perché un dittatore non deve fare violenza a un popolo; perché un gruppo economico non deve sfruttare il proprio paese; perché una nazione non deve iniziare una guerra? (…) È sufficiente qui l' “appello alla ragione”, col cui aiuto spesso si può giustificare tanto una cosa quanto il suo contrario?». «Qual è in fondo il valore di un ethos, se non si impone incondizionatamente, e non solo “ipoteticamente”? (…) L'incondizionatezza del dovere non può essere giustificata dall'uomo, in molti modi condizionato, ma soltanto da qualcosa di incondizionato. (…) Ciò può essere soltanto la stessa Realtà ultima, somma, che, ancorché non dimostrata razionalmente, può però essere ammessa con ragionevole fiducia – comunque essa venga chiamata, compresa e interpretata nelle diverse religioni» (Hans Küng, Progetto per un'etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana, Rizzoli, Milano 1991, pp. 73, 74, 75. La citazione di Freud è a p. 64). In ultima istanza, solo la libera coscienza personale può cogliere questo impegnativo appello alla vita giusta.
Nel dibattito, l'Autore ha affermato che gli ha sempre dato fastidio e diffidenza l'idea di coscienza, cioè l'occhio di Dio che sempre ti guarda. Quindi una forza esterna, non intima all'uomo. L'idea di coscienza gli sembra comparire nei testi cristiani solo quando Paolo si appella ad essa per superare i tabù ebraici, tanto che ha “coscienza debole” chi non se ne libera. E poi quando Lutero davanti a Carlo V dichiara: «Finché non mi convincete, sono fedele a ciò che sento». Insomma, la coscienza è piena di ombre, non ha consistenza, ma è usata come una forza assoluta: le religioni – dice Viano - fanno guerre, è sui confini religiosi che oggi scoppiano le nuove guerre.

2 – Evoluzione della obiezione di coscienza alla guerra

Anche nella cultura della pace si è verificata una evoluzione della coscienza. Dalla obiezione alla guerra (Tolstoj, Thoreau, Bertha von Suttner; rifiuto personale della guerra da parte di tanti soldati, anche nella prima guerra mondiale, in modo occulto, ma mossi dalla coscienza del “non uccidere”) si è proceduto alla costruzione della pace, mediante la nonviolenza attiva, la “trasformazione nonviolenta dei conflitti” (Johan Galtung). Dal pacifismo (solo rifiuto della guerra) quella cultura è cresciuta nella nonviolenza attiva, la quale è conoscenza: l'analisi della violenza (diretta, strutturale, culturale) vede che la violenza non è solo la guerra; ed è
azione, quindi pratiche di ribellione senza violenza alla violenza del dominio. Ciò può avvenire con la forza propriamente umana, cosciente: una larga non-collaborazione al dominio, che ha bisogno di obbedienza per dominare. È nella coscienza la forza che decide di non obbedire al comando ingiusto.
C'è stata una evoluzione dall'astenersi dall'usare violenza, all'intervento nonviolento: corpi civili di pace; prevenzione, mediazione, riconciliazione mediante la presenza civile in zone di conflitto. Ora ci sono proposte di legge per istituire la difesa civile nonviolenta, e la formazione scientifica di mediatori nei conflitti.
La cultura nonviolenta (ricerca, educazione, azione) procede dalla coscienza che obietta alla guerra, alla ricerca attiva sulle cause delle guerre. L'obiezione alla guerra come inaccettabile male morale e follia irrazionale (Pacem in terris: “alienum a ratione”; papa Francesco: “follia”) perché contraddice la mia-tua umanità, cresce nell'azione-testimonianza, che può arrivare al “sacrificio” di sé per non “sacrificare” altri.
L'obiezione morale disobbedisce alla guerra perché vi vede un assoluto teologico che pretende padronanza divina sulla vita altrui: un potere divino di de-creazione. Ora, credenti e non credenti hanno ragioni convergenti per lottare insieme insieme contro un tale idolo.
La violenza viene giustificata come diritto di difesa (vim vi repellere licet), e oggi si parla di “dovere di proteggere”, ma con enormi sistemi bellici che perpetuano forme e cause di violenza anche crescenti. Quella giustificazione dipende dalla mancanza di conoscenza e di esperienza delle possibilità effettive della forza nonviolenta, e dalla assenza di ricerca di mezzi alternativi alle armi. È vero che Gandhi parlava persino di “dovere di uccidere”, in totale assenza di altri mezzi, per difendere altri, ma non voleva l'istituzione dell'uccisione debordante, come è ogni apparato di guerra, comunque giustificato.

3 – Consistenza della obiezione alla violenza

Con la “ob-iezione” la coscienza si getta (latino iacere), grida, contro qualcosa di inaccettabile. L'obiettore si oppone accettando lealmente la pena, persino a costo della vita. Si tratta di una “obbedienza” (latino ob-audire), ascolto, attenzione e adesione ad “altro”, disobbedendo al comando sentito ingiusto. Qui la coscienza sincera non viene solo “usata” come motivo nobilitante, giustificante, ma anzitutto “ascoltata”, anche con incomodo grave: il soldato nella prima guerra mondiale che non uccide il nemico che ha a tiro; perfino soldati tedeschi, a S. Anna di Stazzema e a Marzabotto, si sono rifiutati di uccidere civili e sono stati uccisi con loro. Questi hanno ritrovato e ascoltato, anche nell'estremo coinvolgimento, la voce dell'unica umanità in se stessi come nelle vittime designate.
L'obiettore obbedisce a una legge-valore: Antigone alla “legge non scritta”; Socrate ascolta il “daimon” che gli impedisce di errare, con le stesse parole di Pietro (in Atti degli apostoli 5,29): «Bisogna obbedire a Dio più che agli uomini», anche accettando la massima pena.
La “scintilla di Caino” (che Viano dà come titolo al suo lavoro) è l'accendersi, quasi la creazione, della sua coscienza, quando esclama: «È troppo grande la mia colpa, non merito perdono!» (Genesi 4, 13). Ciò che l'accende non è solo la paura della pena, ma anche l'ascolto del grido del sangue di Abele udito da Dio, che lo fa sentire a Caino (Genesi 4,10).
Questo “ascolto” dell'obiettore, un sì che è fondamento del no, è una forma di “fede”, di fiducia-appoggiarsi-con/sistere, al di là di ciò che si tocca in concreto. Eppure è «più intimo a noi di noi stessi», come dicono sia il Corano sia sant'Agostino. In quanto così consustanziale all'essere umano è forza obbligante, non come sottomissione a forze esterne, ma come consistenza e realizzazione dell'umano.
La coscienza non è solo quella religiosa, come sembra dire il libro di Viano, ma è l'umanità dell'uomo, quel sapere-e-non-del-tutto-sapere chi sono io profondamente, e chi sei tu, per diventare davvero ciò che siamo, ed essere all'altezza di ciò, cercando e ascoltando ciò che dobbiamo a noi stessi. La coscienza che resiste e cerca è una conoscenza ascoltante, né passiva né arrogante.
Infatti, la fede, nel senso più ampio e comprensivo è – come dice Raimon Panikkar - «la costitutiva apertura dell'uomo verso la trascendenza (o un Essere personale, nelle religioni monoteiste; o una Realtà che ci comprende, nelle filosofie-religioni orientali). È la consapevolezza di essere in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è aperto a questo "più". È un'apertura esistenziale, di cui ogni uomo è capace. L'atto di fede, che salva [dal non-senso], è l'atto con cui l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo ha coscienza costitutiva di questa sua apertura, poi, cerca di far cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni. Queste sono le credenze, diverse dalla fede, anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga, inefficace» (miei appunti da una conferenza di Raimon Panikkar a St. Jacques d'Ayas, Val d'Aosta, ottobre 1992, ma il pensiero è ricorrente nelle opere di Panikkar).
Però c'è anche una fede che è paradosso e sfida allo stato presente: «Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i Greci» (prima lettera di Paolo ai Corinti 1, 22-23).

4 - Cultura critica attiva per superare le violenze

La coscienza non è solo obiezione alla violenza, ma impegno attivo a costruire una cultura critica sulle cause delle guerre e di ogni violenza, per arrivare a forme di pace giusta, di pace nonviolenta. Questo lavoro consiste nella “trasformazione nonviolenta dei conflitti” o “trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici”. Per Johan Galtung è un dialogo intrapreso da molte parti esterne ai contendenti, guardando non solo al loro comportamento violento, non solo alle loro ragioni contrapposte, ma agendo sui loro atteggiamenti nella contesa, per indurli a forme non distruttive di gestione del conflitto.
La ricerca per vedere e togliere le cause del conflitto violento, andando oltre l'esortazione morale individuale, nella cultura moderna comincia con Erasmo (sentiero interrotto della modernità), soprattutto nel “Dulce bellum inexpertis”: il suo punto di vista è cristiano, ma non di meno è semplicemente umano. Quella ricerca fa un ampio passo con Kant, e con i progetti di pace del suo tempo, fino, nel Novecento, al “diritto internazionale dei diritti umani” (Antonio Papisca) e alle istituzioni e convenzioni cosmopolite, oggi ancora troppo fragili: esse abbozzano un diritto in cui i soggetti siano le persone, dotate del diritto umano alla pace, e non solo gli stati, attori di un sistema anarchico, dove ancora decide, di fatto, la pura forza.
Quella ricerca procede fino alla teoria della “pace coi mezzi della pace”, agendo nel conflitto con la prevenzione, l'interposizione, la riconciliazione.
L'ispirazione della ricerca nonviolenta contemporanea è morale-religiosa (Tolstoj, Gandhi, Lanza del Vasto, Giovanni XXIII , Ernesto Balducci, Rodolfo Venditti, Tonino Bello, Thich Nhat Hanh, e vari altri), o “liberamente religiosa” (Aldo Capitini, Movimento Nonviolento), ma anche spesso semplicemente morale-laica (Danilo Dolci, Galtung, Pontara, Patfoort, Krippendorff, ecc.). Di tutti gli autori ora nominati soltanto Giovanni XXIII è presente nel libro di Viano. L'assunto comune è il ripudio dell'uccisione-dominio (non solo l'uccisione), in base all'intuizione che “mors tua mors mea, vita tua vita mea”.
Questa cultura nonviolenta attiva si basa su dati di fatto e sull'uso di una intelligenza immaginativa, euristica.
Le lotte nonviolente per la giustizia sono storia, non pura utopia. Una bibliografia storica “Difesa senza guerra” è reperibile online (e nel mio blog: http://enricopeyretti.blogspot.com).
Antonino Drago ha pubblicato questa scheda: su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale (Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010). Le fonti di Drago sono statunitensi: P. Ackerman e A. Karatnycky: How Freedom is Won. From Civic Resistance to Durable Democracy. Freedom House, Washington, 2005. M.J. Stephan e E. Chenoweth, Why Civil Resistance Works, International Security, 33, 1/2008, 7-44).
L'atteggiamento mentale non di sola registrazione dei fatti, ma di immaginazione euristica, liberante e costruttiva, risulta produttivo nella strategia di uscita dalla violenza, che non è destino insuperabile, né legge della storia. «Bisogna dire le cose premature. Essere realisti è essere creativi» (Johan Galtung al Centro Studi Sereno Regis, 1 giugno 2012). La filosofia dell'Utopia di Ernst Bloch e di teologi come Moltmann, sono un pensiero anticipante, che promuove e indirizza l'azione, oltre il fatto. E spesso si tratta non di anticipare, ma di rimediare a gravi ritardi.  
Così, la nonviolenza è una in-venzione (trovare, creare), ma è anche ricordare: è “antica come le montagne”, diceva Gandhi. Infatti, l'evoluzione della specie è più collaborativa (Erich Fromm) che principalmente selettiva. La storia umana è storia di collaborazione quotidiana, più che di scontro eliminatorio: essa è «un tessuto con degli strappi», e non è tutta strappi (Gandhi).
Questa cultura non è solo un sentire (coscienza interiore), ma un operare (coscienza attiva). Fa delle analisi della realtà, e delle azioni. 
L'analisi della violenza distingue le sue forme maggiori: diretta, strutturale, culturale. Così permette di risalire dai comportamenti violenti alle loro cause nelle strutture sociali, nelle culture profonde (le civiltà-religioni-filosofie). 
Si può anche riconoscere la catena circolare, con effetto boomerang, delle violenze: Helder Camara indicava il ciclo “oppressione-ribellione violenta-repressione”. Per uscirne si deve imparare un'idea e pratica di ribellione davvero liberante, che non rimanga soggetta ad imitare la violenza dell'oppressione (teologie, filosofie e movimenti sociali della Liberazione).
La violenza viene anche studiata come malattia dolorosa e inabilitante, e affrontata con metodo medico: diagnosi, prognosi, terapia (Galtung).
Il concetto di pace sottostante è una pace dinamica, un'idea regolativa, non è più la “tranquillitas ordinis” degli antichi. È l'assenza di violenza in tutte le forme dirette o indirette; è possibilità di sviluppo dei diritti umani; ha esigenze e forme storiche varie e variabili; è giustizia, è armonia delle differenze (R. Panikkar, T. Bello).
Le azioni di pace nei conflitti, prima che degenerino in guerra, sono la difesa e l'intervento civile popolare, nonarmato, nonviolento.

5 – Coscienza di riconoscimento, condizione per la pace giusta

La coscienza è un «abitare con se stessi» (Hannah Arendt, intervistata da Joachim Fest; in Anna Bravo, Raccontare per la storia, Lezioni Primo Levi, Einaudi 2014, p. 137). Il contrario è l'essere “fuori di sé”, come si dice dei matti.
La co-scienza è [cercare di] sapere di sé, conoscere se stesso, essere in sé, non fuori di sé. Ed è anche, la co-scienza, un sapere-con-altri. L'altro è con me, come me; c'è il sapere insieme. Perciò si parla di “reciprocità delle coscienze” (Bernhard Haering), fondamento della possibilità del con-loquio, e del dia-logo: uno stesso linguaggio inter-lingua, un incontro di significati anche per dire visioni diverse. Fondamento, anche, della polis, dunque della politica, che è vivere insieme, per il bene comune, ben più che lotta per il potere.
Freud, nel 1915, quando vede divampare la guerra (in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Riflessioni a due sulle sorti del mondo, Bollati Boringhieri 1990, p. 54) parla di «cattiva coscienza per il sangue sparso» nell'uomo primitivo, coscienza che non è più nell'uomo civile: la guerra come una caduta indietro, è la perdita di quella identificazione con l'altro, che è la civiltà, la cultura. Dunque co-scienza è originariamente senso di identificazione con l'altro, (ivi, p. 85), è sentire che anche nell'altro c'è la coscienza che è in te. Questa, tuttavia, si può offuscare, perdere.
Il rischio nucleare totale, la minaccia di estinzione, oggi ancora gravemente attuale, può e deve risvegliare una “coscienza di specie” (Ernesto Balducci), nel tempo della “coscienza atomica” (Günther Anders, Norberto Bobbio).
Ancora Freud : «Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra (…). La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “Ama il prossimo tuo come te stesso”» (lettera in risposta ad Einstein, Vienna, settembre 1932, op. cit., p. 85).
C'è in noi un impulso di morte e distruzione, ma, nella stessa lettera, Freud scrive: «L'altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di identificazione. Su di esse riposa in buona parte l'assetto della società umana».
Dunque, l'umanità che non va contro se stessa, è quella che si riconosce come composta di soci e non rivali, più soci che rivali, più collaborativi che competitivi, società di persone comunicanti e non atomismo di individui separati: ognuno è unico, ma non è separato. «Siamo fatti gli uni per gli altri» (Marco Aurelio; san Paolo)
La coscienza di riconoscimento è una forza che frena la violenza: l'altro vale come me. Ho raccolto una trentina di formulazioni, nelle più varie culture umane, della “regola d'oro” (in Servitium, n. 152, marzo-aprile 2004, Riconoscimento e disprezzo, pp. 103-108, s.egidio@servitium.it). Essa dice che l'altro vale come me, che sono l'altro per lui. Ciò è valore e forza in tensione con l'altra “pulsione”, di rifiuto, di morte, per la quale l'altro non è me, io non sono lui.
La coscienza di pace e nonviolenza è un atto di riconoscimento, che rifiuta di eseguire azioni e ordini di offesa all'altro. “Ama il prossimo tuo come te stesso” ha, nella tradizione ebraica, anche una lettura che dice: “Ama il tuo prossimo che è te stesso”. La coscienza sostanziale avverte che la vita vale, in me e in tutti.
Ma c'è anche la posizione opposta, militarista, di negazione della coscienza universalista umanitaria. Ho sentito con le mie orecchie dal generale Carlo Jean, il quale, il 29 marzo 1996, a Torino, parlava ad una platea di studenti, dire addirittura queste letterali parole: «Nell’esercito è necessaria l’esecuzione automatica dell’ordine, perché combattere significa uccidere». Questa frase è un condensato di nefandezze: l’obbedienza automatica è roba delle macchine e degli oggetti, non degli uomini, quindi il solo prospettarla disumanizza, degrada e corrompe le persone. Obbedire al comando di uccidere è la negazione totale dell’umanità: il potere e la logica di guerra devono imporre con minaccia l'ordine di uccidere per superare la coscienza di immedesimazione nell'altro, che è propria della nostra umanità sana. Infatti, ci si può trovare costretti ad uccidere, in situazioni tragiche estreme, per difendere la vita altrui, ma nessuno può comandarlo ad un altro, senza ridurre l’uomo che uccide su comando a oggetto meccanico, morto più dell’ucciso.
L'appello alla coscienza può anche essere un abuso per nobilitare un interesse. Può essere manipolata, insincera, falsa. Ma proprio l'appello abusivo dimostra l'importanza del riferimento alla coscienza: omaggio del vizio alla virtù.

Enrico Peyretti, 11 ottobre 2014

Appendice
Mencio, Vita tua vita mea

Non abbiamo solo l'istinto violento, abbiamo anche una naturale inibizione ad uccidere l'altro, che sentiamo valere come noi. Per superarla occorre un'operazione culturale, la "costruzione del nemico", cioè la de-umanizzazione dell'avversario, in modo da figurarcelo meno che uomo. Abbiamo innato l'impulso naturale a salvare la vita altrui, perché ciò è salvare la propria, cioè la qualità e umanità della propria vita. Non so se qualcuno l'abbia detto meglio di Mencio, in questa pagina famosa:

Testo di Mencio

«Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza. (...) La ragione per cui affermo che tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza è la seguente: supponi che vi siano delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere elogiati da vicini ed amici, e neppure perché disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e dell'acquiescenza, e del senso di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto».

Mencio (Mengzi), filosofo cinese, 372-289 a.C.

Cfr. P.C. Bori, S. Marchignoli, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, pp. 55-56; seconda edizione Carocci, Roma, 2003, p. 59.
Nella stessa pagina, Pier Cesare Bori annota: «Il sentimento dell’umanità, ren zhi xin, si esprime nel bu ren, “non sopportare le sofferenze altrui”. Ren, uomo, con l’aggiunta del segno di “due” significa “umanità” secondo l’etimologia tradizionale. (Su ren, cfr Scarpari, La concezione della natura umana, in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991)».

Si potrebbe usare questo ragionamento, e lo si fa, contro la nostra argomentazione: «non sono uomini...», dunque vanno eliminati dalla società umana !! Ma fa parte dell'umano l'evoluzione sia in peggio sia in meglio, e nessuno può escludere il ricupero di un essere umano all'umanità che ha negato in se stesso. Sopprimerlo sarebbe un disumano fissarlo nella contraddizione con la sua natura. Credo, infatti, che questo «non sono uomini...» sia da intendere non nel senso apodittico, definitorio, ma descrittivo, come se dicesse: «non vivono all’altezza umana, contraddicono la loro natura umana».

E. P. (scheda su Mencio del 1996; rivista martedì 14 ottobre 2014)


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