21 07-08 DOSSIER SUL POST-TEISMO nn. 1-21 (2 luglio – 13 agosto 2021)
1 – Oltre Dio , scheda di Beppe Pavan
(da fogliocdbpinerolo@gmail.com , nel numero di luglio-agosto 2021 ; www.cdbpinerolo.it )
Non
è un’affermazione blasfema, per molti motivi. Comincio dal fatto
che si tratta del titolo del 4°
volume, pubblicato da
Gabrielli, della serie “Oltre le religioni”, che dal seminario
nazionale di
Rimini 2017 tiene desta l’attenzione mia e di
molti e molte nelle Cdb, e non solo.
Il secondo motivo, infatti,
è legato alle cose dette, durante la presentazione sul canale
Youtube
dell’editore il 15 giugno scorso, da Claudia Fanti e
Paolo Scquizzato: una donna e un uomo che a
questi temi stanno
dedicando attenzione appassionata.
Il terzo motivo ce lo offre
Paolo Scquizzato, che è prete... e questo, scusate se lo dico, non è
una
cosa da poco. Certo, può essere sorprendente, soprattutto
se pensiamo ancora che a parlare di Dio
siano titolati i preti e
chi si occupa professionalmente di teologia. Ma questa – le cose
che ho sentito
quella sera, intendo – è davvero una notizia
importante: che lui e l’altro “don” Paolo, che moderava
il
confronto tra i due, stiano camminando sui sentieri del post-teismo
con convinzione. E con noi.
Mentre scrivo queste brevi
considerazioni non ho ancora letto il libro... ma mi prendo la
libertà – e
la responsabilità – di trascrivere alcuni dei
pensieri che si sono fissati in me dalle loro parole.
1. “Non
c’è più bisogno di un Dio personale e creatore... il post-teismo
ci aiuta a superare le
grandi narrazioni mitiche, e il dualismo,
cominciando da naturale/soprannaturale...”. Il Dio
“personale”
è quello a cui la dottrina patriarcale attribuisce tutte le qualità
positive della “persona
umana” elevate al massimo grado,
impossibile per l’umano: onnipotente, onnisciente,
infinito,
eterno, perfetto, ottimo, ecc...
2. “Non c’è
più nessun Dio lassù”, responsabile di ogni foglia che si muove
e, soprattutto, del
bene e del male. Il male è intrinseco alla
realtà, alla nostra esistenza finita e fragile: “potremmo
smettere
di chiamarlo ‘male’...”, superando così anche il dualismo
bene/male di cui addossiamo
sempre la responsabilità a
“qualcuno” di esterno a noi: al demonio e, in ultima analisi, a
Dio stesso.
3. Parlando della morte, vista come il male estremo
nella vita individuale, Claudia Fanti ha
suggerito di
“abbracciare in modo nuovo la vita”, aiutandoci con le scoperte
della fisica quantistica,
secondo cui “l’energia che ci fa
vivere non si distrugge con la nostra morte, ma passa dal
cervello
individuale che muore al cosmo”. Di questa “energia
divina”, hanno ricordato i due preti, parla
anche papa
Francesco al n. 80 della Laudato si’... “Dio è dentro la
realtà”.
4. La preghiera, infine: “Quelle domande alla
divinità non hanno più senso, perchè io sono già
nel tutto”;
è questione, quindi, “di coscienza, di fare esperienza di bene”;
in modo attivo, non
passivo: praticare il bene, vivere l’amore.
Così pure, ha continuato Scquizzato “non chiederò più
la
salvezza, perchè sono già salvo... sono divino”, posso
dire con Gesù: “io sono una cosa sola con il
Padre”. “Non
è colpa di nessuno” ciò che succede... piuttosto “il nostro
compito è la cura”. E qui
Claudia ha agganciato l’empatia,
ricordando che anche alla luce della scienza noi
siamo
“interconnessi” con tutto ciò che ci
circonda.
Concludo ripetendo che questi sono solo i miei appunti
da quel dialogo. Adesso leggerò il libro, che
sono sicuro verrà
letto da molti e molte, anche nella mia comunità. E potremo così
approfondire
temi che ci appassionano: ateismo – panteismo –
dualismo – interconnessione... oltre tutti i muri e
gli
steccati eretti dalle tradizioni religiose, troppo spesso servite
come foglie di fico della volontà di
dominio di “chi la sa
più lunga”.
A proposito di dualismo... ce n’è uno che mi
piacerebbe veder universalmente superato: quello tra
“don”
(contrazione di dominus, padrone e signore) e il suo femminile
“donna” (contrazione di
domina). Mi sembra che siamo sulla
buona strada: il pensiero che successori/e dei discepoli e
delle
discepole di Gesù siamo tutti e tutte ci aiuterà ad
andare “oltre le gerarchie, le caste sacerdotali, i
preti”...
Anche alla luce delle gravissime decisioni che stanno prendendo in
questi giorni (le
pressioni del Vaticano sul Parlamento italiano
per pretestuose modifiche al ddl Zan, l’introduzione
nel
Codice di diritto canonico della scomunica automatica contro i
vescovi che ordinassero al
sacerdozio delle donne e contro le
donne stesse) questi gerarchi cattolici mi appaiono sempre più
degli
“usurpatori”: si sono appropriati di un potere che li accomuna ai
“capi delle nazioni” e da cui
Gesù aveva messo in guardia
il suo gruppo raccomandando loro che “Tra voi non sia
così!”.
Invece... Il giovedì santo celebrano l’istituzione
“divina” del loro autoistituito sacramento
dell’ordine
sacro, mimando il lavaggio dei piedi ben puliti di qualche persona...
poi, nel resto
dell’anno, lanciano scomuniche, discriminano,
abusano, intrallazzano con i soldi, evadono tasse...
Non tutti,
per carità! Fanno anche tantissime cose buone! Sono contento di
essere amico e voler
bene a tanti preti e anche a qualche
vescovo! Ma è l’istituzione, la gerarchia, il loro
ordine
simbolico, totalmente e ineluttabilmente patriarcale, che
li induce in tentazione, che li mette nella
condizione di
perpetrare quelle ingiustizie. Sono contraddizioni così palesi e
così denunciate nei
secoli che non riesco più a credere alla
loro buona fede. Capisco la crisi esistenziale di tanti di
loro,
ascolto e condivido le parole con cui denunciano le
ingiustizie dell’istituzione in cui si sono
immersi per scelta
e per fare del bene... Di un’altra immersione hanno bisogno: in una
piscina di
Bethesda rigeneratrice, da cui riemergano purificati
e liberi dal potere. Questo servizio, a loro e alle
comunità,
possiamo e dobbiamo farlo noi, il popolo dei discepoli e delle
discepole di Gesù.
Oltre le caste e le gerarchie: potrebbe
essere il tema di un prossimo volume di questa
preziosa
ricerca!?
Beppe Pavan
2 - Perplessità teologiche sul post-teismo, di Enrico Peyretti
(pubblicato su Adista Documenti 31 luglio 2021, p. 10-11)
Ricevo, e ringrazio, il foglio della cdb di Pinerolo. Mi sento amico, anche con amicizie personali, vicino anche se non coincidente in tutto, con le posizioni e con le scelte delle Comunità Di Base, che fanno un servizio-fermento tra i credenti.
Anche da diverse altre parti (editore Gabrielli; Adista) si parla oggi di questa riflessione sul post-teismo (“Non c’è più bisogno di un Dio personale e creatore..."), qui denominato "Oltre Dio", nella scheda di Bappe Pavan, in calce. Sono interessato, ma molto perplesso. Sento il bisogno di confronto paziente, attento, sui tempi lunghi, senza barriere autoritarie. Dico qualcosa qui in modo rapido e semplice, interlocutorio, nella mia debole fede, che è quella detta in Marco 9,24.
Penso che credere non è pensare (opinare) che Dio esiste lassù, chissà dove, ma sentire che un Vivente-più-vivo-di-noi ci ama, è Vita-che-dà-vita. Il nome Dio è terribilmente equivoco. Va bene da Giove a Maradona-dios. E' ben utilizzabile da chi vuole dominare: Gott mit uns, per dirla in tedesco e non in latino...
Invece, avere fede in Dio è sentire che siamo vivificati e amati, che un Bene Vivente precede e accompagna la nostra vita, il nostro bisogno e il bel desiderio di vivere. Amare, essere-per-gli-altri, è il compito vitale successivo, perché anzitutto siamo amati da un Amore Vivente. Il Male che imperversa ogni giorno non è così vivo e così forte, anche se ci spaventa, e ci impegna a resistere e superarlo.
Credo giusto superare un concetto metafisico di Dio (il "dio dei filosofi" di Pascal, p. es. nel n. 556 o nel suo "memoriale": <Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi, dei dotti... Dio di Gesù Cristo>), un essere diverso e lontano, di potenza e arbitrio, di cui la chiesa-struttura si è fatta forte per imperare sugli spiriti umani. Ma, nello stesso tempo, abbiamo bisogno di accogliere molta luce dalla grande, viva, crescente Tradizione (Gregorio Magno: "La Scrittura cresce con chi la legge"), liberandola dall'immobilismo dottrinal-burocratico.
La mia perplessità sul post-teismo (ne ho già un po' parlato con qualche amico) è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di conoscenza, sim-patia (sentire-soffrire insieme), dia-logo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C'è un ateismo serio, che dobbiamo stimare. Un atesimo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena "un vapore" (è sempre Pascal...) sono più di lui, perché ho coscienza di persona.
Non so bene cosa pensare del dopo-morte (ne ho 86), ma la mia fede e speranza è che ci resti la coscienza (sentirci essere, sapere che siamo, co-scienza). Se Dio non ci dà questo, se è energia che si spegne con la mia caduta dalla vita, io che sono niente sono più di lui perché so di essere, ho coscienza: questa è la nostra dignità (anche pesante, ma è tutto). Se Dio ha coscienza, se è persona, se è un Tu degno di sguardo e di comunicazione, se è lui che viene e mi sollecita, e non io che ipotizzo lui, allora è Dio, è vita che salva le vite. Gesù di Nazareth che lo ha "spiegato" così. Altrimenti la morte è più forte di lui, come diceva il caro Paolo De Benedetti, affermando la sua fede nella risurrezione anche dei suoi cari amati gatti.
Scusate, è solo per quella comunicazione, fragile e necessaria, che ci fa vivi, e amici. Parliamone.
Enrico Peyretti
3 – Intervento di Claudia Fanti
Caro Enrico, sono Claudia Fanti, la co-curatrice di Oltre Dio. Ho ricevuto da Cecilia Gabrielli la mail che hai inviato a diversi indirizzi, compreso quello di Adista. E per prima cosa ti chiedo: è pubblicabile questa mail? Te lo chiedo perché sto preparando un servizio con un insieme di scambi e commenti a proposito del post-teismo, tutti estremamente meritevoli di attenzione.
Quello che scrivi è da prendere assolutamente sul serio, non a caso ti ho citato anche nella presentazione del libro. Credo che tutti e tutte noi che ci stiamo interrogando sul tema sentiamo il bisogno di questo "confronto paziente, attento, sui tempi lunghi, senza barriere autoritarie" di cui giustamente parli. E di questo confronto stai offrendo davvero un bell'esempio, considerando la pacatezza e la benevolenza con cui esponi le tue perplessità.
Ovviamente non ho risposte. Si tratta di una ricerca appena iniziata, che nessuno sa ancora dove ci condurrà.
Se un punto di consenso è dato dall'esigenza di superare l'immagine tradizione di Dio, cosa precisamente ci sia dopo questo superamento non può essere chiaro a nessuno, e di certo ci sfuggirà per sempre. La fisica quantistica ci insegna che la realtà ci sfugge, che possiamo lavorare solo su modelli di realtà, i quali non sono la realtà. E se ci sfugge la realtà, tanto più lo farà la realtà divina.
Ti ringrazio delle tue osservazioni e resto in attesa di sapere se siano pubblicabili.
4 – Raniero La Valle
Carissimo Enrico, hai ragione: se perdiamo in Dio il carattere personale, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. E perché ancora dirsi cristiani? Un abbraccio, Raniero
5 – Gilberto Squizzato
(pubblicato su Adusta Documenti, 31 luglio 2021, pp. 11-12)
Carissimo Enrico, mi sento fraternamente convocato dalla tua mail ad argomentare la posizione che sostengo nel libro "Oltre Dio" che hai fatto oggetto delle tue riflessioni e anche delle tue appassionate critiche. Voglio anzitutto ricordare che si tratta di un testo non collettivo ma redatto da diversi autori che hanno lavorato su una stessa domanda: dunque ciascuno risponde individualmente delle tesi che espone nel proprio contributo e io perciò solo delle mie pagine devo rendere ragione. In secondo luogo ti confesso che l'obiezione fondamentale che tu muovi a chi invita a superare la dottrina teistica -considerata tradizionalmente come presupposto irrinunciabile della fede cristiana- non solo non mi è nuova ma ha trovato anche in me, per lungo tempo,un fervido sostenitore. Mi sono a lungo misurato con la paura legata alla rinuncia all'immagine del Dio che ci è stata trasmessa da diciassette secoli di dottrina (quelli seguiti alla proclamazione del Credo di Nicea) e alla sensazione di una perdita irrevocabile nel caso avessi compiuto quel passo che d'altra parte mi pareva ormai onestamente irrinunciabile. Finchè, come forse sai, ho scritto "Il dio che non è Dio", edito proprio dai Gabrielli, in cui ho argomentato fin dal sottotitolo la possibile di "credere rinunciando a ogni immagine del divino". E qui già appare chiaro che rinunciare a ogni immagine del divino (e a ogni parola su di lui) non significa abrogarlo e cancellarlo dal nostro orizzonte ma solo, umilmente, rinunciare a ogni pretesa di definirlo e convocarlo obbligatoriamente a far parte del nostro dizionario mentale come parole fra le altre parole. Qui ovviamente non voglio in alcun modo condensare l'itinerario del libro: ma mi sembra giusto e amichevolmente fraterno provare a giustificare davanti alla tua perplessità la possibilità di superare proprio dal cuore della fede cristiana ogni disorso teistico.
Provo a dirlo in breve. Se usi una parola non devi forse darle un contenuto, un significato? Che cosa é dunque per te "il significato" dal segno-parola Dio? A che cosa rimanda questo termine? Tu lo sai? Hai parole per dirlo? Io no. O meglio, in una sola accezione sono disposto a riconoscergli una funzione: quello di esprimere la nostra invocazione. Dunque riconosco a questa parola solo una funzione "fatica", mai descrittiva, tanto meno dottrinale (cioè di insegnamento). È questa funzione fatica che appare evidente (almeno dopo un'indagine etimologica) nell'inglese "God", che originariamente non descrive il divino al modo in cui pretendono di definirlo la filosofia cristiana-ellenistica o quella scolastica (Theòs, Deus, Dio), ma semplicemente lo rappresenta come "l'Invocato". Questa parola God, preziosissima per noi, semplicemente testimonia che sta davanti a noi un "invocante" che con quel termine prova ad aprire un dialogo con un "mistero" di cui non sa nè può dir nulla, di cui sicuramente non è neppure concettualmente e in minima arte padrone. God, "Invocato", è dunque parola lanciata all'indirizzo dello Sconosciuto. Tu pensi che noi possiamo dare alla parola "dio" altra funzione so non quella di esprimere, per via di metafora, il destinatario della nostra invocazione sentendolo come il non-dicibile, cioé l'Ineffabile?
Tu mi obietterai che noi possiamo conoscere "il dio" perchè Gesù -come affermano i Vangeli- ce lo ha rivelato come "il Padre". Ma non sta proprio qui il paradosso altissimo e sublime della fede cristiana? Quella immagine di Padre usata da Gesù non subisce forse uno scacco innegabile, tragico, definitivo, proprio sulla croce? Abbiamo certo bisogno anche noi come lui di un Tu, ma non è infine sul Calvario, dopo il successo dei miracoli e il trionfo popolare dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme che sembra preparargli ben altro destino, che quel Tu paterno non gli risponde? Non è forse crudelmente frustrato, sulla croce, proprio il desiderio di Gesù -che è stato certezza per tutta la sua vita fino alle ore atroci del Getsemani- di poter riporre la sua fiducia in quel Dio-Padre che invece non risponde? Il desiderio di Gesù cade nel vuoto? Anch'io, come tutti noi, vorrei poter tirare "giù dal cielo" (de sideribus, dai corpi celesti, da cui "desiderium“) quel Tu e convocarlo alla mia presenza. Ma che cristiani siamo se vogliamo essere più di Cristo, che sul Golgota non ci è riuscito? Non é più cristiano piuttosto lanciare il nostro grido, come lui, senza pretese che vadano al di là della nostra misura?
Ancora mi obbietti, e con te Raniero La Valle, che considero uno dei miei decisivi, esemplari e fondamentali maestri: ma se togliamo a Dio il carattere di persona semplicemente annulliamo Dio. Su questo non sono d'accordo con voi. Perchè quel bisogno di salvare Dio come persona non può fare a meno di misurarsi col significato autentico di questa parola latina (corrispondente al greco "prosopon") con cui a Roma si intendeva semplicemente la maschera che celava il volto dell'attore, per suggerire la presenza di un personaggio del dramma inscenato davanti agli spettatori del teatro. Che cosa possiamo dire di questo personaggio? Chi c'è dietro la persona (la maschera) che noi chiamiamo Dio? Vogliamo forse ancora dargli il ruolo del "deus ex machina" di antica memoria che fa esplodere il big bang, quando la scienza ci ha dimostrato che non ha senso immaginarci un “prima“ quando ancora il tempo non esisteva? O forse, piuttosto, dicendo che quel Tu é persona vogliamo intendere qualcosa come "l'individuo" al quale desideriamo rivolgerci? Io - senza alcuna pretesa di convincere né te né alcun fratello-preferisco attenermi all'insegnamento radicale di Eckart che già settecento anni fa ci segnalava che con qualunque immagine o nome pretendiamo di definire e chiamare Dio, lo rendiamo "cosa fra le cose", e con ciò stesso non solo lo oggettivizziamo, ma anche lo immeseriamo, per così dire, a presuntuoso possesso delle nostre parole. Ecco perchè oggi non sento più il bisogno, o meglio non ho più la pretesa, di fare dell'Ineffabile una persona. Preferisco dunque (ma questo vale solo per me e tu hai il diritto di seguire un'altra strada su cui non mi arrogo alcun diritto di esprimere un giudizio) fermarmi nel silenzio e contemplare il Silenzio dell'Indicibile.
È per questo motivo che ho accettato la proposta di inserire qualche mia riflessione, accanto a quelle di nomi ben più importanti del mio, nel libro "Oltre Dio" (che se fosse dipeso da me avrei intitolato "Oltre la parola Dio") che si inserisce programmaticamente nel filone del post-teismo.
E preciso qui che, a titolo del tutto personale e proprio per i motivi fin qui succintamente esposti, che io non me la sento come altri post-teisti di provare a rendere oggi accettabile e comprensibile quel "Dio" riconoscendovi come l'Energia diffusa nell'universo intero. Mi pare infatti che con questa immagine non siamo lontani dalla definizione di "Deus sive Natura" di Spinoza che sento di non poter accettare perché dovrei accettare come segno di una Sapienza diffusa nella materia (chiamiamola pure quark, onde gravitazionali, particelle elementari che riververano nell'entanglement ovunque diffuso, ecc. ecc.) anche tutta la crudeltà (quella umana compresa) che tortura il mondo naturale e la storia umana. E non sento neppure il desiderio di cercare nelle nuove acquisizioni della scienza gli indizi di una possibilità di sopravvivenza per l'Informazione che per un attimo ci ha dato forma, vita e coscienza. Il "dopo", almeno per me, non è un problema: come la vita, questo dopo puó essere solo dono e non una pretesa nè un mio spasmodico desiderio.
In conclusione: non voglio insegnare nulla a nessuno, caro Enrico, ma dico anche che ben volentieri oggi, senza alcun dramma di coscienza, accetto onestamente di iscrivermi fa i post-teisti perché preferisco il silenzio della teologia apofatica cui già erano approdati tanti padri antichi, che é poi l'a-teologia (la non-teologia, la non descrizione del Mistero davanti al quale possiamo solo ammutolire) di Raimond Panikkar. Ma questo, aggiungo, non mi impedisce di dire, ogni giorno, in cuor mio o con alcuni fratelli che si dicono cristiani, "padre nostro": se lo faccio però (invocando l'Ineffabile) è perché voglio usare usare,non avendone di migliori, le parole (cioè la metafora) di Gesù e per esclusiva fiducia nell'uomo della croce, che sulla croce si scoprì orfano e tuttavia al dio-padre assente riconsegnó, obbediente, la sua vita e il suo sogno del Regno.
Ecco perchè da tempo non sono neppure più disposto ad accettare che qualcuno mi parli "in nome di Dio" : non solo i cattivi che se ne servono per fini di potere, ma neanche i buoni che in suo nome amano generosamente i fratelli. Autorizzo a farlo eventualmente (e io mi inchino con timore, tremore e commozione al loro coraggio che va oltre ogni azzardo) solo le vittime di tutte le croci della storia del mondo. Solo loro possono lanciare il loro grido nel vuoto, nella fiducia che il Vuoto ascolti la loro voce.
Scusa se mi sono permesso di giustificare così diffusamente la mia posizione e anche se non apro il discorso della "resurrezione" che, come tutti sappiamo, non è prova ma oggetto della nostra fede.
Un caro saluto, un forte abbraccio. Gilberto
6 – Enrico Peyretti
Carissimo Gilberto,
mi fai molto onore prendendo così in considerazione la mia semplice nota al testo della CDB di Pinerolo. Capisco le tue ragioni. Non ho letto tutto, non il tuo libro, ma i testi usciti su Adista e qualcos'altro, anche ciò che corre nel dialogo odierno. Non intendo continuare ora. Da te raccolgo questa idea grande e antica: nessuna immagine di Dio, neppure concettuale, o verbale. Forse la mia, Vita-che dà-vita (o simile), è già troppo definitoria? Può darsi. Comunque, se c'è, Dio è qualcuno che si rivolge a noi, parla, chiama: altrimenti la Bibbia è tutta vana. Quanto a "persona" mi pare che oggi non sia più la antica "maschera", o ruolo, e sia piuttosto il "diritto sussistente" di Rosmini, e la dignità-soggetto dei Diritti Umani, che dice la cultura più umanistica e (quasi) comune che abbiamo, oggi la più storicamente salvifica; se vuoi, è la Fraternità dichiarata da Francesco anche con esponenti musulmani.
E' nato da quella mia prima nota un seguito di interventi e circolazioni (Raniero, Claudia Fanti, Eletta Cucuzza, tu) che si potrebbe raccogliere in un dossier, senza pretese. Aspetto qualche giorno e poi, se vale la pena, ci provo e lo ripresento a chi ha ricevuto o partecipato. Sappiamo bene che è un cammino in corso. Che te ne pare? Grazie! E buona domenica! Enrico
7 - Nota di E, P.
Raccolto questo provvisorio dossier, mi permetto di aggiungere una breve nota, proposta in semplicità.
Se ciò che abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in qualche modo parlante, trasmittente una comunicazione significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona), avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza, armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci sono, infatti, religioni della natura, entità di cui noi umani siamo parte, come origine e come sbocco: natura personificata?
Se non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento, fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende storiche e biografiche. C’è una speranza umana, resistente, rigenerante (oggi si usa dire: resiliente), di continua ripresa (in evoluzione), che si direbbe alimentata da una presenza vivente e incoraggiante (anche la natura stessa, ma come animata, personificata).
Se non fosse persona, non ci sarebbe la preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci nell’impresa della vita.
Se non fosse vivente, indicibile, ma emergente interiormente nel cuore di tutto, sopra il nulla che ci minaccia, sentiremmo il movimento ad amare, rispettare, aiutare, favorire, salvare i nostri simili? Manchiamo spesso a questo silenzioso appello interiore, ma possiamo rinunciarvi, sradicarlo da noi, senza ridurci a pietre?
Trovo la parola più vera, oltre i concetti che sono “maschere” (nel senso peggiore) di Dio, fuori da ogni uso autoritario e imperiale della figura di Dio, in ciò che scriveva Pier Cesare Bori, amico prezioso e maestro, con riferimento alla risposta di Gesù alla Samaritana, privilegiata interlocutrice (in Giovanni 4): «“In spirito e verità” unisce le due dimensioni, verticale (Dio è oltre ogni immagine, si trova solo nello spirito) e orizzontale (Dio si trova nella giustizia)».
8 – Vittorio Borraccetti (da Esodo)
Tre riflessioni a partire dai racconti biblici della creazione. 17 Marzo 2021 , di Vittorio Borraccetti
1. La riflessione su Genesi tra fede e scienza mi è sembrata un tentativo di dare al racconto biblico della creazione un significato che da una parte non contraddica lo stato attuale della nostra conoscenza dell’origine dell’universo e della storia dell’umanità e dall’altra corrisponda alle nostre sensibilità e aspirazioni etiche. A mio modo di vedere, così facendo si è preteso, e si pretende, troppo da quel racconto.
Nei secoli le generazioni che ci hanno preceduto hanno letto il racconto, comunque, nel senso di ritenere l’universo creato da un Dio personale secondo leggi ordinate. Da tempo abbiamo smesso di credere che quel racconto sia la storia dell’origine dell’universo.
Perché
sentiamo il bisogno di ricavarne una lettura che dia un significato
di
verità
(è così?) a quel racconto mitico? Non sarebbe sufficiente prendere
atto che quel racconto è un mito, come ne esistono altri in altre
culture, dal quale certamente si possono trarre significati
sapienziali
a seconda della lettura che se ne dà nelle diverse epoche storiche?
Mi sembra che nelle interpretazioni proposte in alcuni saggi (come
quelli di Geroldi e Ricca, oltre all’introduzione) ci sia un
presupposto non detto, che trattandosi della Parola
di Dio
quel testo non possa essere trattato come altri miti e debba avere un
significato autentico, svelato dalla successiva venuta di Gesù
Cristo e dal suo annuncio. In altre parole, le interpretazioni
presuppongono la fede. In questo modo tutti i ragionamenti sono già
orientati, non c’è un vero confronto con altri punti di vista, con
chi pensa che quei testi siano, piuttosto che parola di Dio,
parola degli uomini su Dio. Nel suo intervento in in videoconferenza
del 22 febbraio, J.L. Ska ha interpretato l’espressione parola
di Dio
nel senso che i testi cui è riferita sarebbero d’importanza
fondamentale per il popolo di Israele. A me sembra una lettura più
convincente di quelle dogmatiche, che rimanda al tema
dell’interpretazione del testo.
In alcuni saggi e
nell’introduzione si critica la concezione tradizionale di un
universo perfetto costruito secondo leggi universalmente valide, così
si dice che il mondo è creato da Dio che poi lo lascia andare. Si
attribuisce all’influenza della cultura greca l’idea della
creazione dal nulla, della natura come prima rivelazione del
Creatore, della natura che segue la logica razionale del Verbo.
Ricordo che l’azione creatrice del Verbo sta nel prologo del
Vangelo di Giovanni. E poi mi convince poco considerare la cultura
greca come un ostacolo alla piena comprensione del pensiero biblico,
anche perché mi pare difficile rintracciare un pensiero biblico puro
e autentico.
Sempre Ska ha sottolineato che
l’interpretazione è opera di chi legge, inevitabilmente
influenzato dal tempo in cui vive e dalle culture del tempo in cui
vive (che peraltro, abbiamo sentito, influenzano anche gli autori dei
testi, a cui interessa fondare il mito originario di Israele).
Il
che significa che non c’è una verità nascosta, ma che nel corso
del tempo ciascuno trova nel testo un
significato. Se è così e se le interpretazioni passate erano
tributarie delle concezioni del cosmo terracentriche e
antropocentriche, bisognerebbe superarle definitivamente. Il che non
mi sembra ancora avvenuto.
Si dice che l’idea miracolistica, provvidenzialista e creazionista non sia più attuale tra gli esegeti e teologi. Forse non è del tutto vero e a mio parere non è facile abbandonarla del tutto, alla luce di molti passi anche del Vangelo. Inoltre, certe teologie ecologiche in fondo pensano a una natura buona di per sé. Ma è certo che nel catechismo, nella “pastorale comune”, nella liturgia, cioè nella vita della Chiesa, quell’idea persista e non sia secondaria o trascurabile.
2.
L’idea di un Dio creatore porta con sé l’idea di un Dio
trascendente e personale che opera la salvezza. Nella sua relazione
in videoconferenza Ska ha parlato di un Dio che non sta in alto ma in
basso, di un Dio immanente. E quanto alla salvezza che essa, a ben
guardare, alla fine esige l’intervento di uomini; esempio
importante: per la liberazione dall’Egitto Dio suscita
Mosè.
Colpisce la concezione di un Dio immanente,
rispondente alla sensibilità di molti, ma avrei voluto chiedere a
Ska, come si concilia questa concezione con l’idea di un Dio
personale, che mi pare esista nella Bibbia. In realtà nella Bibbia
quel Dio personale interviene direttamente nella storia del popolo.
Certo suscita Mosè, ma poi interviene a convincere il Faraone a
lasciare andare il suo popolo... e non richiamo molti altri racconti
d’intervento personale. Difficile poi negare che l’incarnazione
sia un intervento diretto di un Dio personale nella storia degli
uomini…
3. Dicevo della critica all’idea del mondo creato perfetto. Si scrive che “le scienze oggi mettono in discussione la razionalità e ordine della natura”, per confutare l’idea tradizionale di un universo ordinato, creato da un Dio secondo un preciso disegno, mentre non sarebbe così. In linea di massima è difficile non essere d’accordo.
Accanto
alla creazione imperfetta, c’è poi il problema del male, della
sofferenza, dovuti sia alla precarietà della condizione di vita
degli uomini, alla malattia, alla morte, all’aspetto talora ostile
della natura. E al male che gli uomini si infliggono reciprocamente e
che contrassegna tutta la storia dell’umanità.
C’è da
chiedersi: l’imperfezione, il male sono conseguenza di una
creazione non ordinata, la storia dell’umanità con le sue
sofferenze è dipesa dall’assenza di perfezione originaria o è
conseguenza di un agire disordinato degli uomini? Il dilemma non è
da poco e non credo sia superabile affermando che la
storia della salvezza non può essere irrigidita nello schema
creazione – caduta – redenzione (così
nell’introduzione).
Sottoposta
a critica l’idea di un mondo perfetto e di un Dio che crea leggi
valide e universali, presa consapevolezza dell’imperfezione del
mondo creato e della vastità del male, si cerca salvezza nell’idea
di un Dio che condivide la sofferenza dell’umanità. Un Dio che
accetta la sfida, si mette in discussione, colloquia con l’umanità,
come la vicenda di Giobbe dimostrerebbe. Posso con molta umiltà dire
che a me sembra che in quel libro non sia Dio a colloquio con
l’umanità, ma semmai il contrario, con domande e risposte di
uomini a uomini, alcuni dei quali pensano di interpretare il pensiero
di Dio?
Di fronte alla difficoltà di affermare la
perfezione del creato e un Dio creatore che sostiene il mondo, e
all’esperienza del male e della sofferenza si scrive che è
lasciato all’uomo dare
“senso e forma all’imperfezione”
secondo “l’immagine
biblica di creare dando i nomi attraverso la parola”.
Così facendo l’uomo si impegnerebbe a “realizzare
la speranza di Dio”.
Queste parole mi colpiscono, sembrano rovesciare la storia, tocca noi
salvare il mondo imperfetto di Dio. Nello stesso tempo, con qualche
non secondaria precisazione, le condivido con convinzione perché
dicono che solo con il nostro impegno renderemo il mondo migliore.
Ma
nei limiti del nostro essere umani. Non si può pensare che gli
uomini con la loro precarietà e i loro limiti possano dare senso e
forma all’imperfezione dell’universo. A malapena si può pensare
che l’umanità sia capace di dare senso e forma a se stessa.
Ma
sul piano della religione e della fede, come si concilia questa tesi
con tutta la storia della salvezza, con la colpa originale, con un
Dio che diventa uomo e ci redime con la sua morte in Croce? Perché
c’è bisogno che venga il Salvatore? Perché c’è bisogno della
crocifissione?
È con il racconto complessivo della storia degli
scritti che compongono la Bibbia che bisogna fare i conti, con quella
che è stata chiamata e dovrebbe ancora essere la storia della
salvezza, che costituisce tuttora la realtà dell’esperienza dei
credenti, della chiesa, che si esprime, al di là del catechismo e
della teologia, nella liturgia dei sacramenti. È questo racconto che
avrebbe bisogno d’interpretazioni e rappresentazioni che tengano
conto delle attuali conoscenze dell’universo e della storia
dell’umanità.
Il vaglio della ragione, basato sulla conoscenza, non può essere rifiutato anche sui contenuti di una religione o di una fede, perché diversamente si può legittimare la fede in qualsiasi cosa. Ecco perché mi sembra legittimo continuare chiedere se siano plausibili, sulla base di quel conosciamo dell’universo e dell’uomo, non l’apertura al mistero o la fede in una qualche forma di sopravvivenza dopo la morte, bensì i molteplici contenuti della fede cristiana. E se sia possibile, oltre che necessario, declinarli oggi, lo ripeto, in termini che non stridano con la conoscenza del mondo e della storia dell’umanità.
9 – Angelo Reginato (da Esodo)
Prosegue con Angelo Reginato, pastore della Chiesa Battista di Lugano, il confronto nato dal numero di Esodo "E fu sera e fu mattina", la genesi tra scienza e fede e le domande poste da Vittorio Borraccetti nel suo Tre riflessioni a partire dai racconti biblici della creazione.
Penso siano feconde le domande poste da Vittorio Borraccetti. Ognuna richiederebbe l’apertura di un cantiere teologico. Mi limito a esprimere alcune reazioni che hanno suscitato in me.
Condivido molte delle affermazioni fatte. In particolare, l’osservazione iniziale: “si pretende troppo da quel racconto”. Porremmo le stesse domande alla Divina Commedia? Qualcuno lo fa, ma una lettura critica del poema dantesco sa bene che è necessaria la sospensione dell’incredulità, lasciando che quelle parole plasmino in chi legge quel lettore implicito o ideale che l’opera desidera riconfigurare. Il poema, come ogni racconto letterario, non intende fornire informazioni ma dare forma a un mondo. Per la narrazione biblica, però, entra in gioco il suo statuto di “Parola di Dio” e l’interpretazione che le chiese, lungo i secoli, hanno avanzato in proposito. Penso che il nodo fondamentale stia proprio nella comprensione della natura della narrazione biblica. Prima di affrontarlo, seppur per sommi capi, occorre dire qualcosa sulla storia degli effetti di quelle narrazioni e sulle interpretazioni ufficiali fornite dalle chiese. Anche perché queste ultime continuano a parlare “nella pastorale comune, nella liturgia, cioè nella vita della Chiesa”. È vero: per molti credenti, di tutte le chiese, fa testo un’interpretazione dogmatica delle Scritture. Come teorizzato ai tempi della scolastica, la Bibbia viene intesa come miniera da cui estrarre i cosiddetti dicta probantia che avvalorano le tesi esposte nei trattati di teologia. E di essa si fa una lettura fondamentalista, ignara della differenza dei generi letterari, del tutto aliena a un approccio storico-critico. Penso che, alla radice di queste letture, non ci sia solo l’ignoranza - problema serissimo, che solo un’autentica “riforma” potrebbe affrontare - ma anche un certo interesse. Nel passato, l’interesse delle chiese nel tener saldo il monopolio della verità; oggi, l’interesse psicologico di cercare nella religione una “ideologia rassicurante” (J. B. Metz), in grado di fornire risposte certe e semplificanti a fronte di una complessità che disturba. Se prevale il bisogno di certezze, la lettura delle Scritture non potrà né suscitare domande né essere interrogata. Dove sei? e dov’è tuo fratello? - ovvero le due domande fondamentali del racconto dell’“In principio”, domande che aprono da sole squarci sul senso di quella narrazione – lasciano il posto alle affermazioni catechistiche sul Dio onnipotente, che governa saldamente il mondo da Lui creato.
Qui, più che il problema della plausibilità delle credenze e della loro compatibilità con la visione scientifica della realtà, la posta in gioco attiene allo sguardo acceso sul mondo e al “cuore” - inteso in senso biblico, come centro unificatore e cabina di regia dell’attività umana - da cui quello sguardo origina. Che sguardo accendono le chiese? E che cuore plasmano, oggi?
Ma vorrei provare a dire qualcosa sullo statuto dei racconti biblici. Affermare che quella narrazione è “Parola di Dio”, che quel Libro contiene la rivelazione di Dio, significa che il popolo d’Israele e i discepoli di Gesù hanno colto in quelle parole la verità divina sulle loro vite. Il riconoscimento è avvenuto “dal basso” e non come gesto autoritario che ha imposto quei libri e ne ha censurati altri (come suggerisce Dan Brown!). Un gruppo di persone si sono sentite “lette”, riconosciute da quelle parole di vita e le hanno giudicate “divine”, ovvero veicolo di una verità che il mistero del mondo chiamato Dio comunica all’umanità. Qui, per non fraintendere, bisognerebbe chiarire l’idea “antica” di verità, differente dalla nostra concezione positivista, da telecamera, ovvero di una verità che “fa”, non che “corrisponde”. Ma il discorso sarebbe troppo lungo. In ogni caso, si tratta di una verità esistenziale, per la quale chi legge è esattamente “l’altra metà del testo” (A. Manguel). Dunque, una parola che si presta a una “interpretazione infinita” (ma non “indefinita”: c’è un nocciolo duro del racconto, che nella lettura mette in campo una dinamica di “distanziazione”, prima di acconsentire alla “appropriazione” di chi legge). E non solo nell’atto di lettura: persino nella scrittura, la Bibbia si presenta come Libro plurale, come resoconto di una molteplice (a volte, dialettica) discussione. Di questa pluralità è avvolto anche il mistero del protagonista divino del racconto. Per non nominarlo invano, la Bibbia moltiplica le narrazioni a suo riguardo. E così troviamo una caratterizzazione “interventista” insieme con una che lo fa riposare dal suo operare, affidando agli esseri umani le sorti della storia. Nel racconto fondatore dell’Esodo, per cinque volte si dice che Dio indurì il cuore del faraone e per altre cinque che il faraone indurì il suo cuore. Una medesima dinamica è all’opera nei racconti della creazione.
Della
stessa pluralità è avvolta la lettura biblica della storia: la
categoria di “storia della salvezza”, che è propria di Luca, non
totalizza l’intera narrazione biblica, che raramente procede in
modo lineare e offre interpretazioni plurali degli eventi (anche
della croce di Gesù e del suo significato “redentivo”: persino
la parola “ultima” viene detta in modo “penultimo”,
plurale!).
“E l’una e l’altra” sono “Parola di Dio”
- suggerisce la tradizione ebraica.
Una volta chiarito questo, si possono aprire tutti i tavoli di confronto immaginabili: con le scienze, come con la magia, con il pensiero politico, come con la cultura narcisista. E si può farlo da credenti senza la pretesa di avere il monopolio della verità, dal momento che il Dio biblico viene narrato come “sempre più grande” di ogni comprensione raggiunta sotto il cielo. Lasciando, dunque, cadere ogni pregiudiziale concordismo (della serie “La Bibbia aveva ragione”!), in nome della pluralità degli sguardi accesi sull’unica realtà e dei molteplici linguaggi che provano a dirla. Ma anche non forzando la pur giusta esigenza di plausibilità: posso studiare la luna con metodo scientifico e, contemporaneamente, apprezzarne il significato poetico. E l’uno e l’altro. Senza semplificazioni e patendo la fatica di ricomporre l’infranto di linguaggi specialistici autoreferenziali, incapaci, allo stato attuale, di affrontare la dimensione della totalità e della sua sensatezza più o meno reale.
Gli interrogativi posti domandano una ripresa puntuale. Ma solo una volta chiariti gli equivoci sulla natura del testo biblico. Nelle Scritture ebraico-cristiane la teologia e la storia giungono a espressione come letteratura. Quest’ultima non fornisce solo l’involucro da rompere per giungere ai contenuti. Il mezzo è già il messaggio! E come sosteneva Paul Klee, “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.
Penso che, oggi, sia possibile un’altra lettura delle narrazioni bibliche, in grado di mettere a frutto il carattere narrativo, senza provocare cortocircuiti con altri linguaggi - la scienza, certo, ma non solo - dialogando, invece, con essi, senza pregiudiziali di sorta.
10 – Vittorio Bellavite
Senza il Dio-persona scompare la comunità (su Adista 24 luglio 2021, p. 11)
Sto cercando di seguire la discussione sul posteismo che si arricchisce ancora di nuovi testi. In particolare lo faccio perché vi sono coinvolti media con cui collaboro ed amici da tempo presenti nel circuito di riflessione critica sulla situazione della Chiesa e delle comunità di fede. E un terreno di ricerca in cui non mi trovo particolarmente a mio agio perché da una parte alcuni punti di partenza non mi sembrano originali (il superamento di una “vecchia” idea di Dio) dall’ altra per la difficoltà a capire bene le questioni aperte trovandomi di fronte ad un linguaggio alcune volte involuto e che fa riferimenti a concetti che andrebbero meglio definiti. Dico questo a scusante dei possibili limiti di alcune semplici osservazioni di carattere generale fatte su una conoscenza non di tutti i testi e non di tutte le varianti di questo filone di ricerca.
Mi chiedo se è vero che questo percorso “oltre le religioni” alla fine non si concluda in una sensibilità di tipo panteistico, nobile quanto si vuole, magari emotivamente coinvolgente, magari razionalmente efficace per un’area di opinione in questo passaggio di civiltà. Essa mi sembra complessivamente lontana dalle radici, dal DNA delle risposte ai grandi interrogativi sul senso del vivere a cui hanno dato una qualche risposta , anche difficile, fedi e religioni nella storia dell’umanità. Il partire dai dodici punti di Spong di decostruzione del sistema Chiesa per arrivare passo dopo passo a una forma di religiosità che astrae, generalizza e non si concentra sul vissuto dell’uomo concreto mi sembra un percorso discutibile. L’agnosticismo, l’ateismo, l’uomo in ricerca hanno una loro storia , dei loro fondamenti, non hanno bisogno di partire da una reazione aspra nei confronti di come è la Chiesa. La reazione alla situazione della Chiesa è già e può ben essere diversa (come la mia per una riforma radicale della prassi del suo messaggio e della sua vita interna). Mi sembra che l’uscita dalla fede o la crisi della fede lascino piuttosto un vuoto che non il passaggio a una specie di altra credenza (ateismo, agnosticismo) .
Il superamento del Dio personale è un altro punto da discutere. In tutti e quattro i Vangeli Gesù parla del suo rapporto con il Padre. Quanto di personale c’è in questo rapporto i cristiani se lo sentono ripetere continuamente dal Vangelo con parole che indicano uno stretto legame dal grande significato teologico. Qui c’è l’aspetto materno/paterno di una Persona legata ad un’altra Persona. Non è il Dio motore immobile! Non è un Dio che fa (ci crea) e poi si allontana per diventare una realtà cosmica, una energia pervasiva e diffusa che in modo indistinto anima l’essere. La scienza continua a scavare e a trovare, molto bene naturalmente, dalla meccanica quantistica al big bang a Teilhard de Chardin fino all’espansione in accelerazione dell’universo . Mi sembra che non ci saranno mai risposte che vengano dalle straordinarie scoperte. sempre più stupefacenti, quelle di oggi e quelle del futuro, che possano arrivare a definire Dio o che portino ad altre spiegazioni di ordine metafisico della realtà. Dio è persona perché essa emerge dai Vangeli, e poi è anche , come dice Dante “colui che tutto move per l’universo penetra e risplende in una parte più e meno altrove”. Dio è Persona, “padre” ma anche creatore e padrone dell’essere.
La questione della Resurrezione non può essere ignorata o sottovalutata. Si potrà discutere, come si fa, se il racconto dei Vangeli è cronaca vera oppure se è la descrizione in altre forme del rapporto Padre-Figlio con il compimento della missione e con la sua irruzione tra i discepoli, convinti del loro fallimento, che dà fondamento alla fede e propone un messaggio per tutte le genti.
Nella direzione di “oltre le religioni” a me pare che si creino le motivazioni in base alle quali si riduce o scompare la dimensione comunitaria di quanti vivono da credenti per il venir meno o almeno per l’ affievolirsi della partecipazione a una visione e ad un’azione collettiva spiritualmente ispirata . Penso alle comunità di base. agli ordini religiosi e a tutte le loro attività. alle parrocchie e ad ogni altra forma di presenza di fede. Mi domando se sarebbe possibile un legame comunitario tra chi . alla fine. condivide il superamento del Dio che giudica e dispone e della sua “sovrastruttura” (la Chiesa).
Le riflessioni che ho letto negli interventi sono più complesse e diversificate tra i gli stessi “posteisti” ed è difficile entrare nel merito su tutto. Questo mio testo. breve, a pelle e di prima battuta, forse potrebbe avere una risposta perché sono punti interni al nostro circuito conciliare e, in particolare, a quello dei “Gabrielli”, di Adista ed anche di Chiesadituttichiesadeipoveri.
11 – Raniero La Valle (da chiesadituttichiesadeipoveri ; Newsletter n. 226 del 08 luglio 2021)
Il
Dio che perdiamo
Carissimi,
grazie
al “dossier
sul post-teismo”
curato da Enrico Peyretti, che pubblichiamo nella sezione “Dicono
la loro” di questo sito, portiamo qui alla luce un tema finora
passato sotto silenzio, che da tempo sta turbando gruppi cristiani
anche a noi più vicini. Si tratta della questione che fa di Dio una
nozione del passato, non più utilizzabile oggi: “Oltre Dio” è
l’ultimo documento in cui è espressa questa posizione, è il terzo
libro di una serie edita con dichiarata neutralità dall’editore
Gabrielli, dedicata appunto al tempo che viviamo come successivo alla
religione e perciò detto “post-religionale”, dove però è la
neutralità stessa che fa problema: ne va infatti non solo
dell’identità, ma del fondamento stesso dell’essere, non di Dio,
ma della nostra relazione con lui.
L’oggetto
stesso del dibattito è difficile ad essere definito, non c’è un
limite, una soglia su cui alfine ci si possa attestare. Nel libro di
Raniero La Valle, “No, non è la fine” (Edizioni Dehoniane), in
cui il tema è già stata affrontato, la questione è stata
posta così: “Certo Dio è licenziato e accompagnato alla porta
della città con tutti gli onori… (Ma) fatto sta che messo Dio tra
i vecchi attrezzi da riporre, la strada è stata aperta
per procedere allo smaltimento dei “miti”, che sono poi la
creazione, il peccato, il messia, la redenzione: un accanimento da
cui viene fuori un messaggio globalmente antibiblico. E se c’è
stato qualche teologo volenteroso che nella ricerca di nuovi modelli
cristiani ancora ha cercato di inalveare questo sommovimento nei
parametri del Concilio Vaticano II e nella nuova prospettiva aperta
dalla predicazione di papa Francesco (Victor Codina, Cristiani
in Europa, in
Adista-documenti, 11 luglio 2020), altri hanno rivendicato la
radicalità del superamento necessario: il Concilio, papa Francesco
sarebbero a loro parere ancora dei cambiamenti interni al vecchio
computer; bisogna invece cambiare il computer stesso, il suo hard
disk “che gira a vuoto, è pieno di virus e non consente nuove
applicazioni” (Santiago Villamajor, Riscattare
il cristianesimo, in
Adista-documenti, 11 luglio 2020). Solo che l’hard disk
da buttare via è il Vangelo stesso, nel suo contenuto inaudito, il
pezzo da rimuovere è lo stesso mistero pasquale; e dunque a cadere
sono la croce e la resurrezione, lo scambio trinitario, il dono dello
Spirito, il discepolo che rimane, e l’anno liturgico che tutto ciò
rivive e ripropone nel tempo. Cioè è il cristianesimo, comunque lo
si dica riformato. Ebbene, il prezzo è troppo alto…”
La
questione è aperta. Forse si potrebbe dire qui come alla base
ci sia un equivoco di fondo sul contenuto stesso della disputa: per i
neo-noncredenti collocare nel passato la questione di Dio vuol dire
rifiutarne l’oggettivazione che l’ha resa tributaria del mito,
della fantasia, dell’invenzione antropomorfa, l’ “Oggetto
Immenso” fatto preda della ragione; e ne hanno i motivi. Ma col Dio
pensato così i conti sono stati fatti da tempo, alla domanda
sull’identità di Dio la risposta è quella di Gesù alla
Samaritana, Dio non va cercato su questo monte o su
quell’altro, ma in Spirito e verità; la questione invece è quella
del rapporto umano con lui, è la fede che lo coinvolge nella storia,
è della fede che si può identificare un prima
e un dopo
(“il Figlio
dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla Terra?”); la
domanda è sul senso e le implicazioni della fede di quanti credono
in lui, è questo che appicca il fuoco alla storia.
E
qui, su questo rapporto vitale con un “Tu” che ci ama, vale la
notazione con cui Enrico Peyretti ha accompagnato il suo dossier per
rivendicare il rapporto con Dio come “persona” : “Se ciò che
abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in
qualche modo parlante, trasmittente una comunicazione
significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona),
avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza,
armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci
sono, infatti, religioni della natura…Se non fosse persona, non
avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento,
fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità
umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende
storiche e biografiche… Se non fosse persona, non ci sarebbe la
preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di
tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al
nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci
nell’impresa della vita”.
Se
perdessimo questo Dio, possiamo aggiungere, perderemmo anche il
Dio nonviolento che è il grande dono fatto all’umanità dalla
Chiesa del Concilio, da Giovanni XXIII a papa Francesco ad Abu Dhabi
alla preghiera nella piana di Ninive, e la violenza, a cominciare da
quella religiosa, resterebbe inarginata.
12- Domenico Basile - Come pensare un Dio impersonale
(Adista Documenti, 31 luglio 2021, pp. 12-13)
Se mi è consentito, da “fuori della soglia”, vorrei aggiungere un breve commento al tema sollevato dalla scheda di Beppe Pavan (con riferimento al libro Oltre Dio - Gabrielli Ed. 2021), autorevolmente ripreso da Enrico Peyretti, Raniero La Valle e Gilberto Squizzato che ringrazio per le preziose riflessioni.
Credo che serva separare questioni tanto diverse, nell’intervento di Pavan, per cercare, se possibile, di andare al nocciolo della questione, pur consapevoli che la riflessione teologica non può astrarre del tutto dalle sue concrete realizzazioni nella storia delle Chiese. È evidente, come solo esempio, che l’immagine di Dio tramandata dal giudaismo e poi dal cristianesimo sia stata e sia funzionale a mantenere strutture di dominio che hanno insanguinato la storia di molti popoli e che ancora condizionano le coscienze di molti.
Il nocciolo della questione è se possiamo ancora credere in una idea di Dio i cui caratteri antropomorfici so no talmente evidenti e appaiono come proiezioni delle pulsioni di onnipotenza e dei bisogni di protezione degli esseri umani. E, anche, se possiamo ancora credere ad una storia della salvezza costruita a partire dalle ossessioni nazionaliste degli ebrei, nel Primo Testamento, e poi dalle disillusioni escatologiche delle prime comunità cristiane. Se la risposta è no, si apre la questione se è possibile e come parlare del Mistero ineffabile a cui si è dato il nome di Dio, abusando senza ritegno del comandamento di non parlarne invano.
Una delle maggiori e più comprensibili resistenze a rimettere in discussione l’immagine tradizionale di Dio viene dalla difficoltà a rinunciare a rapportarsi con un Tu divino, una realtà personale dotata di coscienza, almeno uguale a quella umana. È questa la difficoltà di cui parla Peyretti nel suo commento a Pavan. D’altra parte un Dio Persona non può sfuggire al condizionamento dei suoi attributi personali che, nello stesso momento in cui lo definiscono, anche lo delimitano. Il post-teismo nasce come esigenza di andare oltre l’idea di un Dio Persona dotato di caratteristiche e attributi che sono ancora l’estrapolazione di quelli della natura umana.
Il nocciolo della questione è quindi come pensare un Dio Impersonale, questione già affrontata dal panteismo e dal panenteismo. Spinoza aveva dato una risposta chiara che può non piacere, pensando a quanto sia difficile rapportarsi alla Natura come ad un Tu, ma va nella direzione giusta. Infatti si dovrebbe imparare a rapportarsi a un Tu che è nel Tutto piuttosto che da qualche parte con sue proprie caratteristiche. Lo stesso catechismo, del resto, alla domanda "Dov’è Dio?" risponde che Dio è dappertutto: in cielo, in terra e in ogni luogo. E se è vero che con questo Tu in un sasso o in un verme gli esseri umani non trovano agevole rapportarsi, possono sempre farlo con specie viventi superiori fino alla stessa specie umana. Quindi chi è in cerca del Volto di Dio lo può trovare di solito abbastanza a portata di mano, senza andare a cercarlo nell’alto dei cieli.
E come fare, poi, a rinunciare all’idea di un Giudice Supremo che ripari i torti, punisca i malvagi, premi i giusti? Qui è più difficile trovare un’alternativa. Certamente la nostra idea che Bene e Male siano rigorosamente separati e distinti è dura a morire. In realtà bene e male sono intimamente legati e non si potrà mai estirpare la gramigna senza danneggiare il grano. Non sarà questo Giudice Supremo che farà Giustizia dopo, se giustizia non sarà fatta qui e ora e se non capiremo che il male che affiora in singoli episodi della storia è il risultato singolare di dinamiche universali a cui tutti partecipano, in misure variabili secondo tempi e luoghi. La scomparsa del male non avverrà dunque nel regno dei cieli ultraterreno ma – forse – sarà lo stadio finale di una evoluzione dell’umanità verso livelli sempre più alti di spiritualizzazione (Cfr. Teilhard de Chardin).
Queste considerazioni elementari possono aiutare a liberarsi da tanti condizionamenti, a partire da una certa storia della salvezza e dalle strutture relative accumulate nei secoli, senza peraltro scomodare la fisica quantistica che ha già tanto da fare per chiarire i suoi fondamenti.
Noi certamente non abbiamo bisogno delle sue scoperte per riconoscere che siamo tutti interconnessi, parte di una rete ben più complessa di Internet. Con stima e gratitudine a tutti gli intervenuti.
13 – Enrico Peyretti (11 agosto 2021)
Caro Domenico,
se sei la stessa persona (come credo) che è intervenuto su Adista Documenti, 31 luglio 2021, pp. 12-13, col titolo "Come pensare un Dio impersonale", mi permetto di continuare il dialogo senza pretese.
Tu dici che il "nocciolo della questione" è che attribuiamo a Dio "caratteri antropomorfici", in lui proiettiamo "pulsioni di onnipotenza e bisogni di protezione". Certamente nelle nostre varie immagini di Dio c'è questo fenomeno, lo immaginiamo a nostra immagine. Ma altrettanto certamente questa immagine è continuamente corretta, discussa, smentita, trascesa, sia dalla critica religiosa, sia soprattutto da quelle luci che sentiamo come messaggi, appelli, rivelazioni, profezie che i credenti riconoscono provenienti dal vero Dio. Certamente ci sono tante immagini e teorie e potenze "umane, troppo umane" riguardo a Dio, anche nella Bibbia. Ma all'interno della stessa tradizione biblica sono smentite sonoramente: la critica profetica, e Gesù! Ora, se dal mistero indicibile di Dio arriva a noi qualche "comunicazione" (cioè un segnale che può essere "comune" a chi parla e a chi ascolta), che noi diciamo essere una "Parola", allora là, nel mistero, c'è una coscienza comunicante, parlante, comunionante, ispirante, simile a quella per cui comunichiamo tra noi, persone coscienti, dotate di "coscienza" (con-sapevoli di noi e degli altri come noi). Mi sembra allora di poter dire: non noi proiettiamo in Dio la nostra natura cosciente, ma noi siamo originati ad immagine del Dio cosciente, personale, comunicante. Questa sostanza della Parola biblica e di ogni monoteismo mi sembra profondamente convincente, confortante, impegnativa; e mi sembra l'unico modo di pensare e dare fiducia ad un Vivente, al di là di ogni nome e di ogni concetto, che è Vita-che-dà-vita, cioè comunica vita e coscienza ad esseri come noi, sia pure lontanamente, somiglianti a lui. Noi siamo coscienti perché Dio è cosciente. A noi è data coscienza anche per la dignità e la difesa degli altri esseri che a noi sembrano (chissà?) senza coscienza simile alla nostra. Se Dio è "impersonale", se non è persona autocosciente e comunicante, io e te siamo più vivi di lui. E siamo soli, perchè non c'è nessuno che, come facciamo tra noi, ci ascolta e ci parla. Se nessuno mi parla, io non esisto.
Pensiamo ancora, in ascolto. Ti ringrazio, con un saluto amico, Enrico Peyretti
14 . Domenico Basile (12 agosto 2021)
Caro Enrico,
grazie del tuo commento al mio intervento sul post-teismo pubblicato da Adista del 31/7. Le tue osservazioni puntuali richiederebbero una lunga e meditata riflessione che per ora posso solo impostare, aiutato da alcuni spunti ricavati da un recente saggio di Stefano Levi Della Torre (“Dio” Ed. Bollati Boringhieri – Novembre 2020) di cui riporto alcuni paragrafi:
Il Dio che conosciamo - pag.107-108
Credenti o non credenti, forse potremmo essere d’accordo che ogni idea di Dio non può che essere finzione, per rispetto alla trascendenza dell’inconoscibile. … Il Dio che “conosciamo” è una spiegazione causale, una funzione, una finzione che ha una funzione, un placebo efficace; un’idea che ha influito concretamente nella storia; un interlocutore, desiderio di uno sguardo che ci costituisce, un testimone della nostra esistenza e di ogni esistenza; un Testimone di cui siamo noi i testimoni; … Il Dio che “conosciamo” è un insieme di funzioni: Dio salva, Dio protegge, Dio consola, condanna o assolve, nutre o affama. … Da questo destino strumentale di essere un insieme di funzioni, Lo salva, nelle narrazioni sacre, il fatto di essere immaginato Persona e dunque dotato del recesso insondabile della sua volontà, conscia o inconscia, di un’intimità privata, a noi preclusa, che ne preserva il mistero … Le funzioni che infliggiamo al Dio che “conosciamo” sono le ispiratrici dei sentimenti verso Dio e del desiderio e bisogno di Dio. E’ il bisogno di uno sguardo di cui vorremmo sentirci oggetto, uno sguardo così autorevole da renderci oggettivi a noi stessi, contagiati dall’assoluto e dall’eterno per aggirare l’inesistenza e la morte ….
Mi scuso per la lunga citazione che riporto perché ha per me il pregio di descrivere efficacemente il mio pensiero, in relazione all’esigenza di un Dio Persona con cui possiamo entrare in relazione e da cui possiamo, in ultimo, avere conferma di esistenza. Io penso che non si tratti di stabilire, con artifici dialettici, se Dio sia Persona o meno. Credo potremmo essere d’accordo sul fatto che entrambe le posizioni sono “finzioni” nel senso di Levi della Torre: che Dio sia Persona o Impersonale nessuno lo sa. Nella preferenza accordata a una di queste idee di Dio influiscono le sensibilità e le storie personali che sono tutte da rispettare, come percorsi alternativi nella ricerca incessante del Suo Volto.
Credo che a favore dell’immagine impersonale di Dio abbia giocato lo sviluppo più recente del pensiero scientifico, da una parte, insieme al rigetto delle visioni di Dio eccessivamente antropomorfiche che ci sono pervenute, attraverso le teologie e le pratiche confessionali delle religioni abramitiche. Penso quindi che ci siano ragioni più che valide per sostenere sia l’una che l’altra prospettiva, in un confronto costante che permetta di trarne il massimo arricchimento, componendone dialetticamente le suggestioni, senza negare la validità di un rapporto personale col divino, per quanti hanno in questo il loro habitat spirituale, ma anche accogliendo la sensibilità di quanti non riescono ad accettare immagini di Dio che a loro sembrano evidenti proiezioni antropomorfiche.
Come ulteriore contributo al dialogo mi permetto di aggiungere in allegato alcune riflessioni di qualche anno fa su questi argomenti, dove, accanto alla questione della personalità di Dio, viene proposta la questione della personalità dell’Io. In un caso e nell’altro la “persona” non può significare altro che una galleria di “maschere” ovvero di modalità di esistenza che, nel caso di ogni essere umano, sono mutevoli nel tempo e insieme ne definiscono la “storia”. Nel caso di Dio, invece, indicano quelle che noi immaginiamo essere le Sue modalità di esistenza, in relazione a noi come individui e come specie. Attribuendogli queste modalità noi Lo costituiamo nostro interlocutore e stabiliamo con Lui una “comunicazione” che attesta la nostra esistenza e ci aiuta a contenere l’angoscia di scoprirci soli nell’universo infinito. Esistono tuttavia delle realtà impersonali di cui siamo in grado di fare esperienza e sono, in primo luogo, le forze che costruiscono e assicurano stabilità ai sistemi complessi in cui è organizzata la materia, dai più semplici organismi unicellulari a quelli più straordinari della vita consapevole. Si può anche pensare che tutto si sia prodotto per caso, ma non si può negare che il caso appaia essere guidato da “intenzioni” ben determinate, verso finalità ben precise. L’impersonalità di queste “forze” non dovrebbe costituire un problema, non più di quanto l’impersonalità del Bene non impedisca che Esso, altrimenti detto Amore, possa essere intuito come il senso ultimo della realtà. Per questo, piuttosto che dire “Dio è Amore” preferisco dire che “Amore è Dio”, dove Amore non è inteso come attributo di una Persona ma è la realtà impersonale in cui ogni Essere è generato e accolto. D’altra parte nulla impedisce che questo Amore sia pensato nelle modalità con cui un rapporto amorevole si costituisce tra esseri umani, ma questo fa parte delle sensibilità individuali e non dovrebbe diventare argomento teologico se non come consapevole “finzione” del Dio che diciamo di conoscere.
Grato della tua attenzione mi auguro che questo dialogo possa continuare e approfondirsi.
Con stima e amicizia. Domenico Basile
15 – Enrico Peyretti (12 agosto 2021)
Ecco, Dio è “finzione che ha una funzione, placebo efficace”, oppure è realtà viva incontrata, in relazione con noi, sia pure avvolta nella nube della in-definibilità entro un concetto (possesso mentale), e dunque sempre a rischio di essere “nominata” (come la sua stessa legge vieta)? Ognuno propende verso un lato o l’altro della domanda. Sai quale è la mia sincera inc linazione. Sostiamo davanti a cose grandi, con impegno e con incertezze, senza troppo con-cludere (chiudere). “Dubitose irrinunciabili chiarezze” chiamava don Michele Do i contenuti della sua fede. Nelle discussioni serie c’è anche bisogno di pause, di riposo: lo dico per me, certo non per impedirti di continuare! Faccio tesoro e affido al tempo e alla vita. L’interrogativo è più fecondo di ogni risposta.
16 – Domenico Basile
Caro Enrico, ricordo insieme a te con nostalgia il nostro indimenticabile don Michele Do e le sue “Dubitose irrinunciabili chiarezze”, frutto di tanta onesta, inesausta ricerca, aperta al dubbio e alle diverse sensibilità dei suoi interlocutori. Oltre la “nube della in-definibilità”, di fronte a cui ogni domanda ammette risposte diverse, a me pare che resti soltanto la concretezza della “prassi” nella quale non è possibile confondersi perchè il criterio è dato chiaramente nella allegoria del Giudizio Finale in Mt25, 31-46.
Ancora grazie. Domenico
17 – Enrico Peyretti (13 agosto)
Post-teismo e preghiera
Sto cercando di rileggere e meditare per me i salmi. Sono preghiera, invocazione, ringraziamento, lode, interrogazione, anche rimprovero e disperazione, cioè sono colloquio. Si parla forse a chi non ascolta, a chi non ha attenzione a me che chiamo? Sì, si chiama anche nel vuoto, se si spera che qualcuno possa forse sentire. In tutta l'umanità c'è preghiera. La preghiera lanciata dal bisognoso è follia o speranza? La speranza che un vivente cosciente, possa essere in relazione con me cosciente, è forse follia, come lo psicotico che parla al muro? Dappertutto c'è preghiera. Il desiderio è preghiera (dice S. Agostino), l'agonia è preghiera, l'esultanza felice è preghiera.
Questo che sto dicendo è un mio pregiudizio? Ha senso solo entro la fede nell'esistenza di un Dio Vivente Cosciente? Il desiderio umano è affermazione che una risposta è attesa? La sete dimostra la sorgente? No, dice Sartre. Saremmo sete dannata? Se alla nostra sete appare la speranza, o l'intuizione profonda, di un Ascolto Vivente, che chiamiamo grossolanamente Dio, mi sembra che questo Dio possa essere pensato solo come Persona, Relazione, Coscienza, Volontà di Bene. La ripulitura e purificazione dell'immagine di Dio, non può arrivare a ridurlo a energia, forza, dinamica inscritta nel mondo, senza alcuna stimolante alterità dal mondo. Quella riduzione equivale a dire: non c'è alcun dio. Perché chiami? Devi arrangiarti da solo. Un post-teismo così radicalmente riduttivo - né Persona, né Coscienza, né un Tu altro da noi comunicante con noi - sarebbe semplicemente la negazione: non-teismo, nessun dio.
Allora, dovremmo starcene soli, ognuno solo, nel deserto totale. Se così fosse, cerchiamo almeno di stare stretti tra noi in pace, senza farci del male, senza aggiungere dolore. Ma che cosa è il desiderio di giustizia e pace, in lotta col mio istinto di sopravvivenza (cioè, in caso di conflitto, voglio vivere io più di te: mors tua vita mea) e voglia di sopraffazione? Chi disturba la mia e tua selvaggia natura col desiderio coraggioso della non facile pace giusta? E' un'idea della vita superiore alla mia prima idea naturale, che è il selvaggio sopravvivere. Chi mi chiama oltre il mio primo istinto, in un vivere più vivo, non impastato di morte, come è la figura dell'uomo armato contro l'uomo?
L'Uomo davvero più vivo e più coraggioso nell'amare, e nel mostrare quella vita più viva, ha accettato di soffrire e di morire nell'ignominia e nella tortura, per affermare la verità di quella vita più viva (vita eterna, la chiamano i vangeli, cioè: vita che non muore). "Dio nessuno lo ha mai visto": l'uomo Gesù di Nazareth ce lo spiega, ce lo mostra, ce lo rende presente, con sentimento e immagini lontane da quel teismo imperativo e opprimente che i post-teisti giustamente combattono. L'immagine di Dio in Gesù è forza di Vita-più-viva, eppure ben più personale, cosciente, comunicante, parlante più del dio ridotto a energia, come del dio aristotelico, "atto puro", lontanissimo e assente, ma entrato invadente nella predicazione della potenza ecclesiastica, che ne fa puntello del proprio potere. Gesù ha mostrato un Dio datore di vita, radicalmente diverso dal dio-potenza schiacciante, che giustamente vogliamo decostruire, e dal dio-strumento del potere religioso.
Il post-tesimo lo ha già fatto Gesù, e ne ha testimoniato la verità accettando di morire per fedeltà al suo messaggio, e per amore di noi destinatari del messaggio di liberazione e di vita nuova. Il suo Spirito riempie la terra e l'umanità, ben al di là dei confini religiosi, eppure ha bisogno che lo raccogliamo sempre di nuovo nella sua chiarezza luminosa. Dio ha novantanove nomi ma il suo più vero non lo conosciamo: ad esso ci avviciniamo balbettando Vita, Bene, Luce, Origine, Parola. Per Gesù, nel suo linguaggio, è Padre materno.
La cosa importante, vitale, è che andando "oltre" Dio e le religioni, nelle forme dominanti, dopo tutti i "post", non ci mettiamo noi "dopo" Dio, cioè non lo mettiamo alle nostre spalle. E in definitiva non ci mettiamo noi al suo posto. Nihil sub sole novi: dall’eritis sicut dii in avanti è la grande tentazione. Anche se tutto dubitativo, ignoto (come quello che vede Paolo nell'Areòpago di Atene), archiviato, accusato, negato, è cosa sana che rimanga a noi come interrogativo, perché nessun'altra domanda ci porta e ci sporge così tanto "oltre" noi stessi, quindi anche ognuno di noi "verso" l'altro nel renderci rispetto e giustizia, cioè possibilità di vivere, e di crescere nella vita. Proviamo non solo a rimuginare nella mente il problema, ma anche, se vogliamo, proviamo a chiamare verso l'orizzonte, con la preghiera, non quella rituale e celebrativa, ma quella interrogativa. Forse è la più ascoltata.
18 - Domenico Basile
15/agosto 11:54, bsldnc42@libero.it ha scritto:
Caro Enrico, questa mattina, rileggendo i tuoi pensieri su “Post-teismo e preghiera” , mi sono trovato a pensare che davvero ogni idea su Dio che nasce nel cuore dell’uomo è un grido lanciato nell’immensità dell’universo, in attesa di una risposta che sia l’inizio di un dialogo. Cosa altro infatti potremmo fare, nello sgomento di trovarci “gettati nell’esistenza”, con il desiderio di risposte che appaghino i nostri tanti bisogni di sapere? Ogni idea su Dio è dunque finzione, nel senso di Levi della Torre, cioè ipotesi sul fatto che ci sia Qualcuno che ascolti e risponda. Il nostro cuore attende una risposta, il nostro pensiero ci suggerisce che forse una risposta c’è già, da decifrare nel linguaggio misterioso della realtà.
Pensare Dio come Persona o pensarlo come illimitata Presenza di Amore che pervade e anima ogni recesso dell’universo sono entrambe “ finzioni”, cioè ipotesi suggerite dal nostro cuore o dal nostro pensiero. Gesù diceva: “Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv4,24). Ma anche questa è una finzione, immagine possibile di un Dio di cui non sappiamo nulla e di cui non possiamo affermare nulla, nel rispetto della “trascendenza dell’inconoscibile”, come dice Levi della Torre, o perché “… Sopra ciò di cui non si può parlare bisogna tacere …”, come consiglia Wittgenstein nel Tractatus. Ma noi non seguiamo questo consiglio: di Dio ci facciamo delle idee e le meditiamo nel nostro cuore e ne parliamo tra di noi e talvolta le imponiamo agli altri. E, a parte le imposizioni, va bene così, ma il nostro parlarne sia accompagnato dalla consapevolezza che di finzioni si tratta, senza che questo significhi svalutarle come fantasticherie ma semplicemente accoglierle come ipotesi su cui provare a orientarsi nel mondo, bussole provvisorie ad indicare un Nord lontano e forse irraggiungibile.
So che la parola “finzione” può disturbare. Si può in alternativa parlare di “sogno”, rappresentazione di una realtà possibile, valida per chi ne fa esperienza e in essa trova risposte o anche soltanto immagini che descrivano possibilità. Cosa altro è l’Idea di Dio che aveva Gesù? Padre amorevole e misericordioso, attento al filo d’erba, al parto della cerva, ai bisogni degli uomini, ma anche Giudice giusto, Padrone della vigna che paga secondo criteri che superano la nostra giustizia. Eppure anche questa idea di Dio è stata sconfessata nel momento supremo della croce, quando il cielo restò chiuso di fronte allo scandalo della morte del giusto. Era una ipotesi infondata? Forse era solo incompleta, non aveva tenuto conto dell’idea che Dio fa il bene ma fa anche il male, o quantomeno lo tollera, come pure era stato detto.
Molto bella la tua idea di Gesù come il primo post-teista, il primo ad aver avuto il coraggio di rimettere in discussione l’idea di Dio della religione, nella linea già tracciata dai Profeti di Israele. Peccato che dopo di lui la religione si sia di nuovo impossessata delle idee di Dio, piegandole ai suoi scopi. Ciò che ci resta da fare, pellegrini in ricerca del Volto di Dio, è continuare a sognare Idee di Dio nel nostro cuore e nel nostro pensiero, consapevoli della loro provvisorietà, bussole utili a percorrere tratti del nostro cammino, ipotesi da confrontare con altre diverse e altrettanto indispensabili “finzioni”.
Grazie delle tue riflessioni. Buona giornata, Domenico Basile
19 - Enrico 15 agosto
Grazie ancora, caro Domenico. La parola "finzione" non mi piace, non la adotto: sa di falso, di fittizio. Mi piace "ipotesi", come dici anche tu. La nostra parola-preghiera lanciata nel vuoto, quando riceve una parola (una qualche parola interiore) di risposta, non si impossessa di Dio, più o meno sulla propria misura, ma comprende, nel mistero, che non è sola nel vuoto. Allora, secondo me, "post" tutte le idee grossolane, pretenziose, utili al nostro potere, ma non "post" la misteriosa Presenza viva, che pure appare persino in noi e tra noi: la bontà coraggiosa di Gino Strada dice che tra noi c'è una Bontà. Non poche volte. Grandemente in Gesù. Il male non è padrone. Oggi è la festa di una donna di fede coraggiosa, non facile neppure per lei, Maria. Ciao,grazie,Enrico
20 - Enrico 19 agosto - Respirare è pregare
Tornando a ripetere i salmi, mi trovo a riflettere sulla preghiera universale. La preghiera talora è un grido, talora un canto. La gola dell'uomo, dove il cuore si sfoga, è sempre preghiera. Anche chi non sa a chi parla, anche chi non è certo di essere ascoltato, anche chi rimprovera il silenzio del cielo, ognuno lancia la sua voce, questo prolungamento umano, volo spaziale fino all'universo intero, con cui la solitudine, il dolore, la gioia chiamano e rispondono a tutta la realtà.
Più importante della fede è la preghiera, più grande di fede, speranza e carità. Infatti, Dio è venuto a darci le virtù che lo riconoscono, perchè ha ascoltato la preghiera del mondo. Prima di essere parola, Dio è ascolto. Il cielo era vuoto per noi, per il povero, per la vittima, e il loro grido si perdeva nel nulla. Così sembrava. Ma in fondo al cielo, in fondo al vuoto, invisibile, c'era un cuore sensibile. L'orecchio, infatti, è un organo del cuore. Il grido del povero ha potere sul cuore-orecchio, ha il più grande potere mite e disarmato: genera in quel cuore la pietà.
La pietà torce le viscere a Dio come al Samaritano. Fu il sangue di Abele sparso sul terreno, fu il gemito degli schiavi sotto il Faraone, che costrinsero il lontano piede di Dio a muoversi, la sua voce a farsi sentire, la sua presenza ad avvicinarsi ed entrare nella nostra storia, nella storia del mondo, tanto più impura del cielo. La preghiera obbliga Dio, perché Dio non sopporta il male, nemmeno quando non riesce a toglierlo ora, subito. Intanto risponde ad Abele, e chiama in causa anche Caino: ora deve collaborare anche lui a riasciugare il sangue. E risponde agli schiavi, mandandoli nell'incerta libertà del deserto, verso una terra dove seminare libertà, se davvero non saranno più schiavi.
Ogni uomo prega, anche se non lo sa: il suo respiro, il suo sguardo che cerca attorno, la sua attesa, quella forza anti-gravità che lo tiene in piedi, tutto nell'essere umano è attesa. Attendere è sempre attendere risposta, anche se la domanda è rimasta muta, anche se non ha saputo esprimersi. Quando una voce sa esprimersi, in qualunque modo, è voce anche di chi non ha voce. Sono tante le lingue umane, tante le religioni, anche distorte, ma una sola è la preghiera umana. Se smetteranno di criticarsi spettegolando le une delle altre, e facessero una polifonia di preghiere impegnative, che le manderanno a servire e salvare il mondo, le religioni diventeranno tutte vere, ognuna a modo suo.
Dio nessuno l'ha mai visto: noi lo preghiamo sempre, perché lui prega noi. Ha desiderio di noi, come noi di lui. Stiamo imparando che respirare è pregare.
Il ricco non prega, il potente non prega. La loro vita va in fumo, perché credono di non avere bisogno di nulla, e in realtà non hanno nulla. Solo il povero prega, solo lui ha le braccia aperte, capaci di ricevere tutto, anche di trovare una porta nella morte.
e. p.
21 - Enrico 21 agosto - Dio dopo Dio
Il "post-teismo" è un filone attuale di riflessione teologica per superare concezioni di Dio troppo assolute, o troppo antropomorfiche, o rozze e facilmente strumentalizzabili. Ne deriva un dibattito sicuramente importante. I più sinceri e illuminati credenti in Dio, nella storia della spiritualità, hanno rispettato il suo mistero, rinunciando alla pretesa di definire chi è Dio, hanno adorato in silenzio la sua presenza che si comunica nell'intimo.
Dunque, dopo-Dio. C'è sempre un dopo-Dio, perché l'idea precedente che ne avevamo risulta inadeguata, pretenziosa, misera. "Dio non è così" pubblicava già negli anni '60 John Robinson. Non c'è, io direi, un dopo-Dio nel senso che si rinunci all'interrogativo: quale profonda verità della realtà e della vita, alla quale aneliamo? Direi che non c'è un dopo-Dio che risponda alla ricerca profonda, se riduce Dio a energia anonima, impersonale, motrice, ma non cosciente, non comunicante, non personale. Alcuni arrivano a questo esito, dove Dio non c'è più, dove siamo soli.
Tutto in natura è relativo, cioè in relazione. Dopo la scoperta dell'individuo degno e libero, fino all'esaltazione individualistica che ci ha divisi e contrapposti pericolosamente, oggi scopriamo che tutto è in relazione: gli elementi naturali come i più intimi fenomeni spirituali. C'è un senso unitario di ogni cosa, di ogni vita? Comunque rispondiamo, questa è la domanda. Possiamo usare l'antico ambiguo nome "Dio" per dire l'unità sorgiva di ogni essere, possiamo giustamente cercare nomi e idee nuove, sempre da affinare e correggere, ma non possiamo eludere la domanda, se amiamo pensare non superficialmente.
Allora: "dopo" idee su Dio inadeguate, da correggere o rifiutare, ma non siamo "dopo-Dio", cioè non "senza" Dio, non senza la domanda e la ricerca di Dio.
Possiamo pensare un Dio in relazione, in rapporto profondo con ogni realtà, liberando anzitutto la sua immagine da quella assolutezza, che significa sia somma perfezione, sia soprattutto distacco e irraggiungibilità, perfetta lontananza che accusa e giudica la nostra relatività e imperfezione. Il motivo più serio per respingere non solo un certo concetto, quanto lo stesso interrogativo su Dio, è proprio la sua rappresentazione come sommo, lontano, arbitrario, opprimente, padrone, onnipotente e prepotente. La "religione" in genere pretende di definirlo terribile, lontano, non amabile e pure non giudicabile da noi senza incorrere in peccato di empietà. Molti, davanti a questa immagine, chiudono la domanda su Dio, per dignità. Ma se, invece che in una assolutezza tutta estranea, incontriamo una immagine di Dio partecipe e in relazione con noi, nella nostra storia faticosa, e con tutto il mondo che cerca di realizzarsi, comunicando amorosamente la sua pienezza di vita alla nostra ricerca di vita, allora Dio (quale che sia il suo vero nome o non-nome) può essere sentito reale, pur nel mistero inafferrabile. Allora, in questa possibile immagine, egli è veramente dopo-Dio, dopo quella relazione fredda e non amica, ed è invece un presente-vicino-Dio, vivente che partecipa e anticipa la piena realizzazione della vita, non se ne sta sopra e fuori, ma l'accompagna con amore. Se possiamo liberarci da quel Dio non amico, non vitale, ed avere una crescente persuasione interiore di questa sua presenza, allora possiamo riconoscerci "dopo-quel-Dio", e vicini a Dio-presente-amico-promotore della vita. Nella storia spirituale, uomini e donne hanno sentito e vissuto la relazione con questa realtà di Dio: tra tutti, in modo massimo, Gesù di Nazareth, tanto che i suoi discepoli riconoscono che egli è la presenza nella nostra carne, spirito e storia, di quel Dio che cercavamo confusamente o travisandolo. Sicché il vangelo di Giovanni dice: "Dio nessuno l'ha mai visto", nessuno ne un concetto esatto, ma Gesù ce lo ha spiegato, mostrato, comunicato, lo chiama Padre e Spirito, perché lo ha vivente in sé. Dio rimane mistero e non possesso definito, ma è presente, vivo, intimo: come Gesù ha promesso, dà una vita così viva che non muore.
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