2006 12-14 agosto - La bibbia di tutti è il cuore dell’uomo
Convegno
in memoria di don Michele Do, St Jacques, 12-14 agosto 2006
Enrico Peyretti
Rispetto
a questa relazione del 2006 (che potrebbe essere ancora integrata
come indicato qui sotto in rosso), per conoscere adeguatamente
Michele Do bisogna leggere la raccolta, curata dagli amici, del suo
pensiero spirituale sulla base di appunti e registrazioni delle sue
conversazioni: Per
un'immagine creativa del cristianesimo
(pro manuscripto, pp. 359, 2008) (e. p.)
Aggiungere:
- «Ecclesia ab Abel» (Calati, Sapienza
Monastica, p.
322, da Gregorio; vedi)
-
“Cuore dell’uomo” in Balducci, L’Altro,
p. 90
-Vangelo
scritto da noi: ivi, p. 73
-“Quando
cerco il meglio di me, nel contrasto tra la Bibbia scritta e quella
del cuore, scelgo quella del cuore” (don Michele, conversazione
sulla chiesa del 1968).
-
“Abbiamo un vangelo dentro di noi” in “Per
un’immagine creativa…”, pp.
47, 51, 54, 64, ….
-
Pier Cesare Bori, Lampada
a se stessi,
Marietti 2008
- Sul
modernismo citare Bonomelli sulla libertà nella chiesa, senza la
quale si isterilisce e soffoca
------------------------------------------------------------
1.
Metodo 2. Un testo di riferimento 3. La prima Bibbia 4. Sulla via
di Emmaus 5. Le attese dell'uomo più alte 6. Ecclesia
propter homines 7. Potere
spirituale e dignità della persona 8. Quei testi rispondono al
cuore 9. Perché crediamo 10. Possiamo noi scrivere la bibbia 11.
La bibbia delle madri 12. Per una collocazione storica di Michele Do
13.Chiesa dell'amicizia 14. Testimoni non mediatori 15. Le altre
vie 16. Religentem oportet 17. Ma quale cuore? 18. Ripartire dalla
sorgente
1 - Metodo
Abbiate pazienza, non
giudicate severamente questo mio discorso difficile, nel tentativo di
capire e raccogliere un aspetto dell’eredità di don Michele,
parlando dal basso su cose alte. Esporrò un mazzetto di “schede”,
senza pretesa di organica sistemazione, semplici riflessioni su
parole e pensieri che abbiamo udito da don Michele.
Di una persona come lui si può
parlare su due registri: il primo filologico, teso a raccogliere con
precisione scrupolosa la sua parola e testimonianza; il secondo
consistente nel rispondere al suo stimolo accettando l’impegno che
ci trasmette. Il primo modo è quanto più possibile oggettivo, il
secondo è personale, implica scelte che non sono necessariamente
condivise da tutti, sebbene orientate agli stessi valori e
proponibili alla considerazione di tutti, nel tentativo di accogliere
responsabilmente un’eredità e continuare un cammino. Insomma, un
doppio movimento: l’uno fare memoria, raccogliere, nutrirsi;
l’altro elaborare, proseguire, andare, su responsabilità nostra.
Don Michele diceva cose simili a queste, parlando di don Primo
Mazzolari.
La fedeltà ad un maestro,
come ai propri padri, non sta tanto nel ripetere. C’è fedeltà
persino quando si dimentica il maestro perché si è interiorizzato
il suo insegnamento e testimonianza. Dunque, non facciamo un culto
della personalità, né una canonizzazione di don Michele (è una
affettuosa tentazione possibile), ma cerchiamo di assumere la nostra
responsabilità, registrando la grandezza chiara della sua
testimonianza, e le nostre lentezze e difficoltà.
2
- Un testo di riferimento
Manca in questo convegno una
relazione sulla chiesa, nel pensiero di don Michele. Al riguardo,
oltre a parole e ricordi, abbiamo due testi pubblicati:
-
uno del 1968, circa: La
nostra appartenenza alla chiesa,
pubblicato su il foglio n. 327, dicembre 2005 (www.ilfoglio.info)
, col titolo Pace
con la chiesa, e su
"La nonviolenza è in cammino", n. 1134, del 4 dicembre
2005 (nbawac@tin.it,
gli arretrati si trovano nel sito
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html).
In questo testo di don Michele c’è già un paragrafo Il
cuore dell’uomo, primo vangelo.
-
l’altro del 1985: La
chiesa: con amore e per amore oltre don Primo,
in AA.VV., Don Primo
Mazzolari. L’uomo, il cristiano, il prete,
Cens, Milano, 1986, pp. 129-174 (qui citato in sigla CODP) (volume
ora ristampato – compresi gli errori di stampa! – dalla editrice
Servitium, Sotto il Monte, 1999). [In seguito, nel 2008, questi due
testi sono usciti nel volumetto delle edizioni Qiqaion, della
Comunità di Bose: Michele Do, Amare
la chiesa, con
prefazione di Enzo Bianchi].
Questo secondo è uno dei
pochi testi da lui rivisti e rifiniti, cosicché si può considerarlo
un suo scritto, più unico che raro. Inoltre, i due testi vanno messi
in rapporto storico tra loro: il primo, all’indomani del Concilio,
è una riflessione autobiografica sulla chiesa; il secondo registra
una ulteriore evoluzione del pensiero di don Michele sulla chiesa.
Farò dei riferimenti a questo
secondo testo, oltre che alla memoria viva che tutti abbiamo di don
Michele. Il mio tema ora non è la chiesa, ma il cuore dell’uomo
come primo luogo della parola di Dio che tutti chiama e illumina: «la
luce vera, che illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9).
I due testi sono come
allacciati dall’ultima parola del primo e da questa del secondo:
«La chiesa è tutta l’umanità, è la creazione intera in quanto
si apre alla presenza dello Spirito che la fa ascendere a divina
pienezza» (CODP 158). Siamo, ovviamente, a distanza siderale,
diametrale, da una colonizzazione chiesastica dell’intera umanità:
si tratta invece della dispersione del lievito, incurante di sé,
nella pasta, e della immersione, senza risparmio, della luce, del
sole e della pioggia, in ogni terreno da fecondare.
«La
chiesa è il mondo che va faticosamente trasfigurandosi nella
bellezza» (CODP 167). Se
la chiesa è l’umanità, allora l’umanità, in quanto aperta allo
Spirito, convocata, raccolta, illuminata, è la chiesa, luogo della
discesa dello Spirito e dell’ascesa del mondo a Dio. E l’umanità
è presente, concentrata e riposta nel profondo di ogni cuore umano,
al centro di ogni persona. Ogni persona è, come universale concreto,
l’umanità, in una forma tutta particolare. Ogni cuore, nella sua
nuda sincerità, nella sua condizione essenziale, riflette l’identità
umana universale, che ci unisce attraverso ogni differenza, che tutti
accomuna liberamente, e questo riconoscimento è la condizione della
pace. Ogni cuore è visitato da Dio.
3 - La prima Bibbia
Lo
dice lui stesso: «Il cuore dell’uomo (per don Primo) era “cosa
di Dio”, testo sacro. La prima Bibbia, il primo Evangelo, quello
non scritto da mano d’uomo ma costruito da Dio a sua immagine e
somiglianza. (…) Dio è presente in noi come domanda, prima di
presentarsi come risposta. Il cuore [umano] e l’evangelo, due
realtà egualmente sacre che stanno tra loro come la sete e la
sorgente» (CODP 143) (Amare
la chiesa, p. 55).
Ma
qui sentiamo un primo problema, un interrogativo. Dice Sartre che la
sete non dimostra la sorgente: «L’uomo è una passione inutile».
Se il nostro cuore è questa sete di Dio, questo anelito, come la
cerva “sospira” (traduzione Ravasi) all’acqua della fonte
(salmo 42), ci sarà poi la sorgente che la disseta? E se c’è, la
troverà? La cerva può anche morire di sete. L’interrogativo pesa.
Nella relazione di Giancarlo Bruni ho ascoltato un passo di don
Michele sulla scorta di Simone Weil: se anche il pane non ci fosse,
la fame di pane è il grido, il diritto, la dignità del bambino, di
ogni uomo. Sant’Agostino dice: «Il tuo desiderio è la tua
preghiera» (Sermones 80,7; Enarrationes
in psalmos 37,14),
e la preghiera è già grandezza dell’uomo. È già gloria di Dio
che l’uomo lo cerchi dal fondo del cuore.
Ma un interrogativo ancora
precedente possiamo ascoltare. Don Michele scrive: «L’evangelo
trova un consenso profondo nel cuore dell’uomo. La sua forza di
seduzione è grande in ogni spirito nobile, se pur non credente»
(CODP 134).
Ma è proprio vero? C’è
davvero questa sete nel cuore umano? In ogni cuore umano? Vediamo
persone che ne sono apparentemente immuni, esenti. Cercano e gustano
cose ben più limitate, e sembrano sazi.
Tutta un’apologetica
cristiana si fondava sulla necessità di Dio per l’uomo, che subito
diventa necessità tua della mia religione, della mia chiesa: io ho
la risposta, tu hai bisogno di me. E c’è anche una replica
dell’uomo che fa a meno di Dio, pur vivendo una vita degnamente
umana, né barbara né idolatrica, una «etica del finito» (come
dice Rossana Rossanda).
Viene alla memoria un
atteggiamento di don Michele, anche sdegnato e brusco e quasi duro:
«Con chi non sente questa sete, non ho nulla da dire, nulla in
comune!», anche se non ne faceva un perduto, un uomo minorato.
Sentiva insieme fastidio e comprensione per i cuori sordi, ottusi.
Credo che vedesse Dio alla fine abbracciare anche i cuori sordi. Ma
con questi, lungo la via, occupati e distratti completamente in
altro, in cose da meno, non c’era discorso, non c’era il discorso
importante, della pienezza umana, e per le chiacchiere secondarie non
c’è mai abbastanza tempo. Se guardiamo alto e lontano,
incoraggiamo, svegliamo e invitiamo anche i cuori pigri e pesanti.
Ma dunque è proprio vero che
«L’evangelo trova un consenso profondo nel cuore dell’uomo»?
Quella di don Michele non è tanto una teoria sull’uomo, quanto
piuttosto la testimonianza dell’esperienza che fa lui stesso, che
soprattutto vede e riconosce in cuori grandi, in Gesù soprattutto –
«immagine alta e pura del volto dell'uomo così come lo ha sognato
il cuore di Dio» (dal suo Credo). Dunque, una proposta e una
possibilità bella, più che un dato di fatto naturale e connaturato.
Il cuore dell’uomo non è
sempre come lo sogna il cuore di Dio, che vorrebbe abitarvi
liberamente accolto, per attuarvi la pienezza della vita donata.
Allora,
il titolo di questa conversazione, «La bibbia di tutti è il cuore
dell’uomo», con cui credo di poter interpretare un sentire di
Michele Do, credo anche che non debba pretendere un valore
quantitativo universale: non significa ogni
cuore umano, nessuno escluso; non significa il cuore umano sempre,
naturalisticamente. Ci sono anche cuori chiusi, rozzi, violenti,
oppure dispersi fuori di sé (vedi la parabola del seminatore e dei
diversi terreni). «L’uomo bruto non comprende e lo stolto non
capisce» (salmo 92.7). Ci sono anche cuori malvagi. Lo sappiamo
anche del nostro cuore.
Quel detto non è una
constatazione statistica, che dia una vittoria alla religione nel
sondaggio sulle umane aspirazioni. È piuttosto un appello, una
rivelazione di sé a chi l’ascolta: «Senti, ascolta, nel tuo
cuore, nel più intimo di te c’è una parola, una voce che chiama e
una luce che illumina, che ti trasforma da ciò che sei alla tua
verità. Vivi la tua essenza più vera». Un appello non moralistico
né, tanto meno, proselitistico, ma la fraterna condivisione di
un’esperienza, che risveglia e unisce: «Nel mio cuore ho sentito
questa voce e questa luce, in questo centro di me io riconosco anche
te e il tuo centro, e lo venero senza nulla importi».
La religione si offre come un
abbraccio, un dono di luce, non una necessità, senza di cui non
saresti uomo. Aldo Capitini direbbe «una libera aggiunta».
Oppure, forse meglio, mi pare
che don Michele ci dica: «La religione, amico, non ti viene da
fuori, estrinseca. È il centro più vivo e intimo di te, anche se
non gli hai dato nome, anche se hai tanti dubbi e ti senti incapace,
anche se rivolgi ancora la tua maggiore attenzione a tante cose che
invano moltiplichi per tentare di saziarti».
Insomma, non credo che si
potrebbe intendere il sentire di Michele Do come un puro umanesimo
positivo, tutto ottimistico, un cristianesimo naturale, come se
intendesse: chi non è cristiano non è umano! E tuttavia diceva di
non vedere un ateo felice. Penso che, senza nulla ignorare della
realtà umana, dei suoi abissi, errori e orrori, egli veda l’essere
umano come aperto, non concluso, non chiuso. Semmai, potrebbe
riportarsi al grande umanesimo cristiano rinascimentale, consapevole
di tutto il dramma e di tutta la vocazione umana.
4 - Sulla via di Emmaus, interrogando e ascoltando il cuore
Parlando della chiesa, Michele
dice ancora: «la chiesa è (…) un camminare insieme come sulla
strada di Emmaus interrogando ed ascoltando ognuno il proprio cuore e
il cuore del compagno di viaggio» (CODP 148). È «lo Spirito
creatore [che] opera ovunque c’è un puro anelito religioso» (CODP
157).
Ma questo anelito è
dappertutto? No. Occorre aspirare per respirare.
«Occorre dilatare l’anima
su misura del Mistero di Dio che sempre ci trascende: “Dio è più
grande del nostro cuore” (1 Giovanni 3,20). È l’illimite di Dio
nel limite umano» (CODP 170). Allora, non il cuore com’è, non il
cuore pigro e vivacchiante, ma il cuore che si allarga e scruta e
aspira, può scoprire nel profondo di sé la parola che rivela lui a
lui stesso. Quel fondo di noi, che non conosciamo, che spesso non
cerchiamo, è una presenza vivente, nel cuore del cuore, è Dio.
5 - Le attese nell’uomo più alte
Vive poco il cuore che non ha
attese grandi, ansima come un polmone compresso, schiacciato,
ridotto. Don Michele parla di «le attese più alte del cuore», «le
sue attese più vere e profonde» (CODP 131 e 137). Non semplicemente
l’uomo è bibbia, ma la verità genuina dell’uomo, spesso
nascosta, sepolta, ignorata. C’è un tesoro nascosto nel campo e il
campo più ricco di segreti è l’uomo, ma, se non scavi, nulla vi
trovi.
Quel cuore nascosto e
ignorato, latente, spesso in letargo, che si sveglia alle attese, è
tuttavia più grande della chiesa: «Le strutture della chiesa di
Gesù sono strutture della esperienza spirituale. Sono strutture
ontologiche, non strutture giuridiche: segnano l’essere di ogni
discepolo» (CODP 149).
Il discorso cristiano di don
Michele è un’antropologia aperta alla luce (così pensavo
ascoltando il suo testo sull’eucarestia, il 29 luglio scorso, a
Casa Favre); è una lettura dell’esperienza più profondamente
umana. Carlo Molari, quel giorno, diceva: «Nessuna parola su Dio ha
senso se non è parola sull’uomo».
6
- Ecclesia
propter homines
«L’uomo
è troppo grande perché si possa riconoscere pienamente in una
istituzione, anche la più sacra, perciò la saggezza del detto
antico: Ecclesia
propter homines.
(…) L’uomo è un mistero inesauribile e insondabile perché ha in
sé il mistero inesauribile e insondabile di Dio» (CODP 151).
È quello che ha detto
Giovanni Paolo II: «L’uomo è il fine della chiesa». Ma in quale
senso? Anche il cliente è il fine – il target ! – del produttore
e del venditore. La chiesa porta qualcosa all’uomo che l’uomo non
ha? La chiesa salva l’uomo? La chiesa porta Dio all’uomo? Oppure
il mistero dell’uomo è l’oggetto dell’ammirazione della
chiesa, che vi scopre, vi legge, vi venera e vi chiarisce e
illimpidisce l’immagine di Dio?
Tante volte e in tanti modi il
potere si è dichiarato al servizio degli uomini, e ha servito
comandando, imprimendo se stesso sull’umanità, come il volto di
Cesare sulla moneta. Non è col “potere su” qualcuno che si è
per lui, ma dando a colui che serviamo il “potere di”, la
possibilità di essere e di svolgere le potenzialità che contiene, i
frutti che può dare. Non “potere su”, ma “potere di”. E per
questo ogni potere ha da essere “potere per” altri.
7 - Potere spirituale e dignità della persona
«È stato un giorno di grazia
quello in cui è caduto il potere temporale della chiesa, ma giorno
di grazia più grande sarà quello in cui cadrà il potere
spirituale, assai più insidioso e deleterio» (CODP 168).
«Potere giuridico e potere
dello Spirito. Si può ambiguamente passare dall’uno all’altro
significato operando una perniciosa contaminazione. Contaminazione
che si fa evidente, dolorosamente evidente, nel sacramento della
penitenza, dove il sacramento può diventare tribunale e il sacerdote
può farsi giudice che assolve e condanna, frugando talvolta senza
pudore nella intimità sacra di una creatura già umiliata dalla sua
colpa» (CODP 163).
Questo cenno preciso tocca il
punto più nevralgico del rispetto che l’istituzione chiesa deve
alla persona, oppure le fa mancare. Altre istituzioni possono violare
o di fatto violano diritti umani. La chiesa che si fa potere
giuridico, più che focolare dello Spirito, rischia di violare il
tempio dello Spirito nella persona umana, fragile e sacra.
La chiesa istituzione si è
fatta nei tempi recenti paladina dei diritti umani. Ma è stato
osservato che, sotto vari aspetti, non li rispetta e non li realizza
al proprio interno: diritti ecclesiali della donna; diritto di
parola, informazione, partecipazione; diritto di ricerca teologica;
diritto di difesa dalle accuse dottrinali in teologi processati a
loro insaputa, ecc.
L’immagine del libro sacro
scritto anzitutto nel cuore si completa con l’immagine della
persona, del cuore e del corpo umano tempio dello Spirito santo
(Romani 5,5; 1 Corinti 3,16; 6,19) , e con quella giovannea della
inabitazione di Dio nella persona umana (Giovanni 14,23) che ama e
crede.
Dio abita l’uomo anzitutto,
ogni singolo, e lo chiama col suo nome unico (Apocalisse 2,17), non
come un numero di una massa; e poi abita la chiesa, perché abita
l’umanità. Perciò la persona ha una dignità inviolabile di
fronte alla chiesa.
In
questo scritto su Mazzolari, Michele Do porta un grande documento di
questa fierezza santa, le parole scritte da Mazzolari al card.
Montini quando fu colpito da castigo e divieto di parola nella
chiesa: «Nel 1953 fui condannato senza essere interrogato né prima
né poi (…). Il silenzio non mi spaventa, né mi spaventa il sine
die poco umano. Ho
la morte a due passi la quale mi libererà da ogni limite e da ogni
potere dell’uomo. Lassù, l’adorazione in spirito e verità è
così larga da compensare ogni strettezza terrena (…). Domando la
grazia di darmi l’obbedienza in una forma che rispetti davanti ai
miei parrocchiani di dentro e di fuori, se non l’uomo, l’ortodossia
della mia fede e la dignità della mia vita sacerdotale». (CODP
136).
E riferisce pure le parole di
Mazzolari al suo vescovo che gli aveva letto il decreto di condanna
del S. Uffizio: «Sono più contento di essere da questa parte del
tavolo a sentirmi leggere la condanna, che da quella parte a doverla
leggere» (CODP 142). Senza fare paragoni forzati, sono le parole di
Giordano Bruno ai suoi giudici: «Avete più paura voi di me».
8 - Quei testi rispondono al cuore
Se l’attenzione alle
religioni e la loro conoscenza diventa fede è perché qualcosa e
qualcuno lì, attraverso quei testi e quelle tradizioni, ci tocca ben
più intimamente che nell’intelletto speculativo, o nelle regole di
vita, o nella conoscenza delle tradizioni, o nell’appartenenza a un
cammino spirituale, cioè ci tocca nel “cuore”, nel centro
dell’essere. E se qualcosa di vivo e vero ci tocca lì, è perché
ci tocca anche in tanti modi nella vita quotidiana più comune:
desiderio di bene, dolore e scandalo del male, indignazione per le
violenze, bisogno di amore, volontà di giustizia, nostalgia di pace,
gioia della bellezza, coscienza della colpa, alterità dell’altro,
voglia di far piacere, sentimento di pietà e compassione, caducità
e speranza della vita, ecc. In simili momenti di vita piena, o di
sete di vita, qualcosa di vivo e di vero ci tocca nell’intimo.
Allora nei testi “rivelati”
di ogni religione noi riconosciamo - quei testi ci rivelano - che lì
c’è della verità, perché esprimono - anche rimproverandoci,
accusandoci, correggendoci, stupendoci, e consolandoci (a volte anche
lasciandoci perplessi) - quelle apparizioni più incerte o più
chiare di mistero, che si affacciano nelle esperienze quotidiane;
dunque ci chiariscono l’esistenza, rispondono al “cuore inquieto”
(detto così bene da Agostino, ma anche da Manzoni e da quanti altri,
persino da chiunque tra noi!... ) che non ha pace fin quando non
dimora in Dio. È la vita, è l’esperienza profonda della persona
che verifica il carattere rivelativo dei testi sacri.
9 - Perché crediamo
In
definitiva, crediamo a quei messaggi religiosi perché ci permettono
di vivere, cioè danno un senso al bello e al brutto della vita, ai
giorni e alle notti, al vivere e al morire. La verifica delle
religioni è la vita. Il criterio per credere o no, per riconoscere o
no un valore di verità ad un messaggio e ad un annunciatore, non è
l’autorità della tradizione, ma è lo sperimentare se aiuta o no a
trovare un senso della vita. Il dio di cui mi parlano, o la sapienza
di vita che mi propongono, rispondono o no a ciò che la mia vita
grida e invoca? «Tu solo hai parole di vita» è la risposta della
fede (anche se quel “solo” oggi forse lo attenuiamo, senza
negarlo, perché riceviamo più di un raggio di quella «luce che
illumina ogni uomo» su una “pluralità di vie”, come evidenzia
Pier Cesare Bori: Pluralità
delle vie. Alle
origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola,
Feltrinelli 2000; Universalismo
come pluralità delle vie,
Marietti 2004).
Insomma,
sentire che la prima
bibbia di tutti è il cuore umano,
non è mica chiudere le altre bibbie, non è perdere la ricca varietà
delle scritture sacre e sapienti! Senza le domande di quel cuore,
tutte le bibbie sarebbero mute, non darebbero risposte. Il limite dei
bravi biblisti specialisti, che aiutano a fare una lettura più
esatta, a volte è il biblicismo: stare dentro il recinto del libro,
girarlo e citarlo per ogni verso, senza abbastanza metterlo in
contatto col discorso quotidiano della vita, del cuore, dentro le
vicende del mondo.
La bibbia – e ogni grande
libro sacro - veramente insegna a vivere, ma se non c’è domanda e
bisogno di imparare – il “cuore inquieto” che cerca e interroga
– , se non c’è un’attrazione sulla via della vita, non insegna
niente di vivo, resta un fenomeno letterario o storico.
10 - Possiamo noi scrivere
la bibbia
La grande maggioranza dei
credenti in Dio, lungo la storia, non ha certamente “letto” tutti
i testi sacri da cima a fondo, ma ha ricevuto la loro sostanza
attraverso l’educazione materna, le testimonianze di vita, la
pre-dicazione (cioè il “dire” le esperienze interpretate), le
“storie” (fino agli affreschi nelle cattedrali; quando ero bimbo
la bibbia si chiamava “storia sacra” e si leggeva nelle figure
dei libri). Parlando dei libri sacri non ne parliamo in senso
“colto”, da alfabetizzati, ma appunto come trasmissione di
depositi narrativi e sapienziali che interpretano l’esistenza.
Michele Do aveva presenti come testimoni del vangelo gli «indotti
intelligenti»: quelli che hanno compreso e accolto lo Spirito pur
senza costruire o ripetere dottrine.
Così
nasceva quell’affermazione audace di san Gregorio Magno (papa,
590-604), ripetuta con gioia da padre Benedetto Calati, che se la
bibbia non ci fosse potremmo scriverla noi (cfr. Benedetto Calati,
Sapienza monastica,
Studia Anselmiana, Roma 1994, pp. 57, 189-190, 319. Il testo di
Gregorio è: In
Librum I Regum,
III; PL LXXIX, 216 C). Calati commenta: «Se le Scritture non
fossero state scritte, questa esperienza vitale, vissuta dal credente
oggi, sarebbe essa stessa Sacra Scrittura» (op.
cit., p. 190).
Innocenzo Gargano interpreta: «I Santi, ma in fondo tutti i
battezzati, sono pagina aggiunta alle Scritture ispirate. La stessa
attenzione richiesta nella lettura delle Scritture Sante occorre
averla dunque anche nella lettura degli eventi storici che si
sviluppano nel tempo fino alla consumazione dei secoli»
(Introduzione
a Calati, op. cit.,
p. 56).
Potremmo scrivere la
Scrittura, spiegano questi padri, perché abbiamo ricevuto in cuore
lo stesso Spirito che ispirò gli agiografi, non importa se in misura
assai più piccola, ma uguale nella sostanza viva. Lo spiega con
uguali parole don Michele: «Lo stesso Spirito che è all’opera nel
cuore del Maestro è all’opera nel cuore dei discepoli» (CODP
155).
Va
bene un canone di riferimento, ma perché vedere la bibbia come un
libro finito e chiuso, se narra un’avventura sempre in corso nel
cuore dell’umanità e di ogni persona umana? Il vangelo è sempre
quello, eppure, come tutta la Scrittura, «cresce con chi lo legge»
(Gregorio Magno, in Calati, op.
cit., pp. 57, 72,
337-343, e passim); allora si tratta di essere vangelo che vive, e
dunque anche si esprime, dialoga e comunica in pensiero e parole.
Ogni persona è vangelo o attesa di vangelo, come il vecchio
calabrese, compagno di camera in ospedale di don Michele, a Ivrea,
che gli dice «Bisogna vivere secondo il vero», e lui si annota le
parole di quel vecchio come un «quinto vangelo» (lo racconta
nell’omelia del 31 dicembre 1985). Un giorno, sul prato davanti a
Casa Favre, mi diceva: «Se si scrivesse oggi, la bibbia
comprenderebbe anche, per esempio, le pagine sulla notte
dell’Innominato».
11 - La bibbia delle madri
Pier
Cesare Bori indica alcuni convincimenti morali fondamentali, «che la
parte migliore dell’umanità ha posto a base del suo vivere in
società, ha espresso in una straordinaria varietà di culture
popolari tra loro non isolate e ha trasmesso soprattutto attraverso
la sapienza della donna, sino al momento presente: il diritto non si
attua senza il sentimento dell’obbligo verso ogni essere umano; il
rispetto, privilegio e onore riconosciuti ai deboli; la superiorità
di chi sa non rispondere al male col male, ma con la forza persuasiva
della parola indifesa; il valore dell’agire secondo coscienza, a
prescindere dai frutti; l’idea che occorra saper governare se
stessi e la propria casa per governare anche gli altri; l’idea che
la maggior guerra sia quella contro se stessi; l’esistenza assunta
come somma di benefici che occorre restituire; il rispetto e la pietà
per ogni vivente; la vita che si acquista perdendola; la tranquillità
e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata
alla storia» (Per
un consenso etico fra culture,
Marietti 1995, p. 106-108).
Questi sono princìpi morali
universali, in qualunque modo siano detti, e sono stati fino ad oggi
trasmessi da una generazione umana all’altra, sì, tramite i libri
sacri, tramite maestri riconosciuti, tramite tradizioni e costumi, ma
soprattutto, nella vita quotidiana nelle case, comunicate ai bambini
col latte materno, tramite la sapienza di vita delle madri. Perciò
parlerei di una “bibbia delle madri”, più ancora che dei padri –
compresi i “padri della chiesa” e i ministeri ecclesiali, tutti
maschili (eccetto le chiese evangeliche) - che insegnano più con le
parole che con gli atti continui della vita.
C’è la voce interiore alle
coscienze – quella «legge non scritta» che Antigone, come ogni
obiettore di fronte al potere, opponeva all’arbitrio di Creonte; il
«demone» di Socrate; la «piccola voce» di Gandhi; il «cuore di
carne» che Ezechiele (cap. 36) vede trapiantato in noi in luogo del
«cuore di pietra»; la legge che Geremia profetizza posta nell’animo
e scritta nel cuore (cap. 31,33); lo Spirito, legge interiore che ci
libera dalla legge del peccato (Romani 8,2); la sapienza di vita in
tanti modi nominata nelle diverse culture e tradizioni spirituali –
e c’è, a conferma e sostegno delle coscienze, l’esempio
quotidiano, umile e concreto, delle vite buone e giuste, esempio
incancellabile e fondamentale (che pone le fondamenta
dell’esistenza), pur in mezzo ai tanti mali e difetti umani.
12 - Per una collocazione storica di Michele Do
Ricordo
una battuta di don Michele su Michele Pellegrino, grande vescovo di
Torino: «È ancora troppo “teologo”». (Si veda, sulla teologia,
la citazione di Guardini a p. 147 di CODP). Pellegrino non era un
teologo speculativo, aveva il senso storico, perché conosceva il
pensiero della chiesa delle origini, aveva una grande apertura ai
tempi, era un uomo spirituale, eppure a don Michele appariva ancora
troppo legato alla chiesa struttura giuridica. Anche Montini era un
nomo spirituale, ma molto timoroso di scostarsi dal ripetere la
tradizione (il Credo
di Paolo VI, compreso l’inferno, che era oggetto di scandalo per
don Michele; la Humanae
vitae) e di toccare
la struttura (la sua resistenza alla collegialità episcopale).
Gli
uomini di chiesa sentiti più vicini da don Michele erano altri. Se
vogliamo collocarlo storicamente (ripeto ora alcune cose dette qui
due anni fa per Umberto Vivarelli), lo vediamo in quella linea
storica di cristiani, preti e laici, risalente al movimento del
modernismo, represso poliziescamente da Pio X (anche Angelo Roncalli
fu tra i sospettati), ma proseguito come fiume carsico, emerso
serenamente nel Concilio di 40 anni fa. Don Michele osserva con
piacere che termini centrali del Concilio – comunione, mistero,
sacramento – erano tre parole al centro della meditazione di
Giorgio Tyrrell, nell’opera postuma Cristianesimo
al bivio, del 1910,
subito messa all’Indice (CODP 172). Altri autori suoi, in questa
linea, furono Loisy, von Hügel, Berdiaev, da cui coglieva doni
spirituali con gratitudine pari allo spirito critico.
Attraverso
Mazzolari, padre Acchiappati, e vari altri spiriti vivi, don Michele
Do, come altri della sua generazione, attingeva a radici antiche e
recenti, purché ben vive. Maurilio Guasco è uno degli storici che
hanno meglio lavorato su questa storia della spiritualità in Italia
(a cura sua e di Rasello è uscito nel 2004 Mazzolari
e la spiritualità del clero diocesano,
Morcelliana).
Un mantello di Elia è passato
sulle spalle di vari Elisei. Don Michele, tramite sorella Maria
dell’eremo di Campello - della quale egli possedeva preziosa viva
memoria e documenti, che prima o poi sarà bene che siano messi a
disposizione degli storici della spiritualità, perché appartengono
a tutti – riceveva e ritrasmetteva, in dialogo fervente, lo spirito
e la passione di Ernesto Buonaiuti, del quale parlava con profonda
gratitudine, anche se di lui non apprezzava tutto allo stesso modo.
Il
modernismo non era solo reazione alla decadenza teologica
dell’Ottocento, al giuridicismo e razionalismo esasperato del
Concilio Vaticano I, al totale assorbimento della chiesa nel papa, al
temporalismo papale, all’annullamento del laicato nel clero, ma
aveva obiettivi più alti e vasti. Per cercare un rinnovamento della
chiesa e uno svecchiamento della cultura ecclesiastica, che potessero
incontrare e parlare al mondo contemporaneo, era portato a cercare e
ripensare le fonti del cristianesimo. Settori più critici e
radicali, piuttosto aristocratici ed elitari, furono anche
spericolati nella dottrina e generarono allarme e condanna sommaria e
sproporzionata, in quel clima cattolico chiuso e statico, stretto in
difesa impaurita e tutto riassunto nella figura sovrana e sovrumana
del papa. Ma altri settori, specialmente italiani, si dedicavano a
rinnovare gli studi biblici, la predicazione, la pastorale, con
sensibilità più religiosa e sociale, più spirituale, e non
soltanto scientifica. Perciò investivano cerchie più larghe nella
chiesa (e forse per questo preoccuparono la gerarchia), privilegiando
l’esperienza liturgica, coltivando una ecclesiologia
mistico-sacramentale più che giuridico-istituzionale, ritornando
alla Bibbia, impegnandosi nell’azione caritativa-assistenziale, ed
anche anticipando aperture ecumeniche e soprattutto, direi, la svolta
antropologica della filosofia e della teologia nel Novecento. Molti
di questi motivi saranno finalmente assunti dal Concilio Vaticano II.
Mi pare (contrariamente all'opinione di Enzo Bianchi, che ricordo
bene da lui espressa in un incontro pubblico, probabilmente qui a
St. Jacques) che questo modernismo più profondamente spirituale sia
la tradizione spirituale e operativa, nel suo sviluppo storico, a cui
Michele Do, come Umberto Vivarelli, come gli altri suoi amici e
compagni di cammino, attinge e liberamente appartiene.
Don
Michele, più che i problemi della conciliazione con la modernità
(scienza, diritti, socialità, politica, tecniche) sentiva fortemente
il bisogno di ri-leggere e ri-esprimere le fonti e la scaturigine
profonda dell’essere cristiano, perché la forma corrente,
divulgata, istituita, di presentazione del cristianesimo non
rispondeva davvero al meglio del cuore umano.
Questa
sua ricerca – di cui ci lascia in eredità la traccia e lo schema
condensato nei famosi “otto punti” – non parte da un concetto
di Dio, dalla teologia, non pretende di discendere da quell’altezza
a noi, ma parte da una profonda lettura interrogativa dell’essere
umano, nel cui nucleo inamovibile e perenne, centrale e profondo,
vario ma comune e universalmente caratteristico della sostanza umana
di ognuno, vede la parola appellante di Dio: parola deposta nel
terreno umano, come il seme, secondo la sua continua parabola della
zolla e della luce, attirato a crescere fino alla piena fioritura di
bellezza.
Se
questo è modernismo – parola che credo lui non usasse affatto - ,
non è assolutamente nel senso di inseguimento dell’ultima “moda”,
di una volubile svolta dei gusti, né di adattamento tattico per
farsi meglio accettare, né di avanguardia elitaria culturale.
Possiamo forse usare noi la parola modernismo per fare riferimento a
quel filone ecclesiale, nel suo versante più seriamente spirituale,
e per dire la perenne attualità (modernità, in questo senso) delle
domande sull’uomo che don Michele poneva a se stesso e a noi, nel
cercare la traccia di Dio nel profondo umano.
13 - Chiesa dell’amicizia
Un ripensamento a fondo del
cristianesimo può avvenire con diversi atteggiamenti verso la
tradizione ecclesiale. Don Michele lo ha fatto senza alcun disprezzo
della religione tradizionale, e senza alcun sussiego intellettuale.
Egli dice che Mazzolari «non ha messo in discussione la tradizione»
(CODP 138), e così è di lui. Con le parole di Mazzolari dice che la
chiesa reale «ci ha dato Cristo e ci ha conservato il suo Vangelo,
anche se si sente flagellata dall’evangelo stesso che custodisce»
(CODP 143). Abbiamo tutti l’esperienza, nelle nostre famiglie, che
quella religione, colta nell’essenziale, pur con le sue scorie
accidentali e le sue chiusure, ha aiutato a vivere con giustizia e a
morire con coraggio e fiducia tante generazioni, fino ai nostri cari
che abbiamo visto precederci nel vivere e nel morire in modi che
ancora ci ammaestrano. Anche nella chiesa stretta non è mai mancato
un filo forte di vero vangelo.
Nella giornata del 29 luglio,
Mario Demarchi diceva che don Michele, nella sua dialettica con
l’autorità, è stato, nonostante tutto, «debitore a questa
istituzione che ha trasmesso la memoria»; non ha chiesto imprimatur
né ha cercato l’isolamento.
A
questo riguardo, io scrivevo, nel farne la prima memoria: «Appartato,
ma senza polemiche superficiali, rispetto alle strutture
ecclesiastiche, è stato un centro vivissimo di aperte amicizie e
accoglienze, che ha attirato una quantità di cuori vivi in ricerca,
da tutte le condizioni umane. È stato (…) un cercatore
instancabile di Dio» (il
foglio n. 326,
novembre 2005, www.ilfoglio.info),
e come tale è stato un vero centro di chiesa, focolare acceso col
minimo di struttura esterna, ma con la calda e forte struttura dei
volti, del colloquio, dell’amicizia, dell’ospitalità a Casa
Favre, dell’ascolto e della preghiera. Non ha fatto chiese
alternative, né rivendicazionismi – lo dico senza giudicare queste
esperienze – ma ha fatto chiesa con la novità e l’innovazione
forte, persino rivoluzionaria, che sempre si realizza quando si va, o
si ritorna, all’essenziale.
Ha fatto la chiesa
dell’amicizia, che è la fraternità più larga e più calda e
attenta. Non certo la chiesuola delle simpatie, non l’amicizia del
compiacimento, ma dell’accoglienza, del rispetto, dal valore di
tutti, dell’elevazione reciproca.
Diceva che l’amicizia è
l’ottavo sacramento. Forse David Turoldo diceva ancora meglio:
l’amicizia è il sacramento dei sacramenti, è la sostanza di tutti
i sacramenti.
Amicizia,
anche nella fatica condivisa: nell’accogliere i tribolati, aiutarli
a sollevare lo sguardo. Quando troviamo una simile “intel-ligenza”
– il dono di leggere dentro, in profondità, senza intrusione, ma
con rispetto e vicinanza – troviamo la chiesa, ci sentiamo riuniti
(ek-klesia)
in una amicizia-pace, che anticipa la realizzazione del Regno di Dio.
Il cuore umano è bibbia,
libro sacro, perché in esso c’è sia l’attesa umana, sia
l’appello e risposta di Dio. Ma è bibbia per noi - rivelazione,
promessa, consolazione, speranza – specialmente quel cuore umano
che sa regalare agli altri il dono dell’amicizia, forma concreta
dell’amore di Dio circolante tra noi.
14 - Testimoni non mediatori
Specialmente
(se non sbaglio) nell’ultimo periodo don Michele usava una
espressione significativa: «testimoni,
non mediatori». Credo che fosse una critica essenziale e diretta
alla concezione cattolica del sacerdozio. Egli chiede: «Qual è il
significato della mediazione della chiesa e del sacerdozio
cristiano?». Quindi distingue «una mediazione che è essenziale
alla esperienza religiosa», perché «Dio si esprime e manifesta
attraverso il segno», da una «visione giuridica ed estrinseca»
nella quale «la realtà mediatrice si configura come una realtà che
si interpone, che sta in mezzo, che riceve e trasmette».
Interponendosi così, «la
chiesa sta tra Cristo e il fedele». La realtà mediatrice «è un
involucro che contiene e custodisce realtà di grazia; è un segno
del tutto estrinseco che indica la realtà santa. Indica ma non
manifesta» (CODP 164).
Ricordo quando, incontrandoci
a Casa Favre in preparazione di quel convegno di Sotto il Monte su
Mazzolari, egli trovò la parola “interposizione”, soddisfatto
perché esprimeva bene ciò che voleva dire della chiesa nella
visione giuridica ed estrinseca: «Ciò che è simbolo si trasforma
in una realtà conchiusa in sé e su di sé. Una realtà che si
interpone, che prende il posto della realtà divina, in nome della
quale opera e agisce, in prima persona» (CODP 169).
E invece «il segno religioso
per essere vero e pieno deve avere la sua forza di segno, deve avere
una trasparenza, come nell’opera d’arte. Se no, non è un segno.
(…) Tutto il valore del segno è nella sua trasparenza: è la
visibilità dell’invisibile» (CODP 164). Dunque: testimoni, non
mediatori.
Scrive ancora: «Gesù è
mediatore e sacerdote sommo e unico, ma non il solo. Ogni battezzato
nello Spirito è mediatore e sacerdote nella misura della sua
trasfigurazione interiore. L’essenziale del sacerdozio non è nel
potere di amministrare e distribuire sacramenti, ma nel diventare
sacramento, (…) attraverso la luminosità dell’essere
trasfigurato in Dio. Se così è, dovrebbe essere capovolta la
prospettiva consueta del sacerdozio: non è il sacerdozio universale
dei battezzati che è all’interno del sacerdozio ministeriale, ma
il sacerdozio ministeriale che è all’interno del sacerdozio
universale». «Il sacerdozio dei fedeli è la radice del sacerdozio
ministeriale», e non viceversa, come solitamente appare (CODP
165-166).
Problema: se il sacerdozio dei
battezzati è nel «diventare sacramento», nella «luminosità
dell’essere trasfigurato in Dio», è forse possibile sospettare
qui un’inclinazione donatista, l’eresia antica della chiesa fatta
di soli santi, dei sacramenti invalidi se amministrati da peccatori?
Non credo. Michele sa bene che la chiesa è anche casa di poveri
mendicanti dello Spirito, e che chi opera è lo Spirito e non la
nostra virtù.
Piuttosto, egli riprendeva qui
una chiarificazione assolutamente importante compiuta nei concetti e
nel linguaggio del Concilio, ma poi lasciata cadere successivamente,
a favore del giuridicismo dei “duo genera christianorum” del
monaco medievale Graziano (fondatore del diritto canonico tra 1139 e
1150): visione che divide la chiesa in classi separate e sovrapposte,
che definisce negativamente il laicato, cioè il popolo, che
allontana Cristo dai fedeli, e lo sequestra nelle mani della classe
sacerdotale.
Col
Concilio abbiamo riscoperto nelle origini cristiane i ministeri
non sacralizzati, non separati dal popolo credente. Nel Nuovo
Testamento, la bibbia cristiana, il termine “iereus”,
sacerdote, è detto in senso nuovo solo di Cristo e del popolo, e,
nel vecchio significato, dei sacerdoti che non credono in Gesù e lo
condannano. I primi fratelli incaricati di un servizio nella chiesa
sono denominati, nel Nuovo Testamento, con termini profani, laici:
inviati (apostoli), supervisori (episcopi), anziani (presbiteri),
servitori (diaconi). Nella chiesa, tutti sono sacerdoti per la
partecipazione al sacerdozio di Cristo, e nessuno è più sacerdote e
più sacro degli altri. Severino
Dianich parla di «sacerdozio
esistenziale». Ciò
non toglie affatto che nella chiesa siano utili e necessari specifici
ruoli e ministeri riconosciuti, senza una differenza essenziale nelle
persone, senza il “carattere” discriminante.
Il Concilio era tornato, quasi
in tutti i suoi documenti, al linguaggio neotestamentario, ma poi è
prevalsa la ri-sacralizzazione dei concetti e del linguaggio. Don
Michele è preciso: «testimoni non mediatori», non “interposizione”
sacerdotale tra l’umanità e Dio, perché Dio è venuto
nell’umanità, Dio scrive la sua parola e la sua vicinanza nel
cuore di ogni uomo. «Testimoni, non mediatori. Il concetto di
mediazione e redenzione è pagano» (parole di don Michele, dai miei
appunti dell’incontro con lui, l’ultimo, l’11 luglio 2005).
15 - Le altre vie
Don
Michele parla, nel testo del 1985, di «sacerdozio
universale dei battezzati», ma noi ci chiediamo, e lui stesso si è
chiesto in seguito, almeno implicitamente: soltanto
dei battezzati ? e di quale battesimo? nell’acqua o nel fuoco dello
Spirito?
Oggi
abbiamo la necessità e l’opportunità di interrogarci sulle altre
religioni, di conoscerle come vie di rivelazione e di salvezza. Il
problema, nella teologia cristiana, «non
è ancora giunto a maturazione», scrive Carlo Molari (Rocca,
15 agosto – 1 settembre 2006, p. 54), ma certo abbiamo compreso che
i “semina Verbi”
e l’effusione dello Spirito di Dio vanno ben al di là,
nell’umanità intera, della conoscenza del messaggio di Gesù di
Nazareth e dell’incontro con lui. Qualcuno dice che lo Spirito è
“il non-detto dopo il detto”, dopo il Logos. Don Michele si
riferisce spesso al Logos, la Parola in cui Dio si esprime, ma sa
che questa Parola continua e si allarga nella effusione dello
Spirito: «Ancora molte cose ho da dirvi, ma non le potete portare
ora. Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà in tutta
la verità» (Giovanni 16, 12-13).
Gandhi distingue tra le
religioni storiche, positive, e la «vera religione» che le
trascende e le comprende tutte. «Come un albero ha un solo tronco,
ma molti rami e molte foglie, così vi è un’unica vera e perfetta
religione, la quale, passando attraverso lo strumento dell’uomo, si
diversifica in molte» (Gandhi,
nel 1935, citato da Giuliano Pontara nella Introduzione
a Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza,
Einaudi 1996, p. CXLI).
Gandhi passa dal dire «Dio è
la verità» (ma ci sono diversi concetti di Dio), al dire «la
verità è Dio»: la verità che tutti attira e trascende, e nessuno
può impugnare come propria e de-finire, inquadrare definitivamente,
nessuno può nominare in modo perfetto ed esclusivo. Forse potremmo
dire, analogamente a Gandhi, ascoltando don Michele: la vita è Dio;
la presenza che pulsa nel più intimo di ogni cuore umano, che non si
identifica e non si riduce all’uomo biologico e psichico, ma lo
chiama oltre immedesimandosi in esso, come la luce fa col fiore:
questa presenza più sperimentabile che definibile, è Dio. Il quale
non è chissà dove, nei cieli o nei templi, ma nella vita. Già nel
Deuteronomio (30, 13-14): la sua parola non è in cielo, dove non
puoi salire, non è al di là del mare, ma «ti è molto vicina: è
nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Non possiamo più opporre
religione vera e religioni false – almeno tra le religioni non
inventate ora, ma vissute nella sincera esperienza di tante
generazioni - perché, come ha scritto Arturo Paoli su Rocca,
questa contrapposizione è «una dichiarazione di guerra».
Piuttosto, l’espressione “religione vera” deve evocare in noi
l’opposizione, dai profeti fino al Nuovo Testamento (bastino Isaia
58; Matteo 15, 1-9; Marco 12,33; Giacomo 1,27), tra formalismo
cultuale ipocrita e vita giusta in soccorso al prossimo bisognoso.
Ci sono tanti libri sacri
dell’umanità, depositi densi di sapienza e sempre fecondi di nuove
luci, perché «la Scrittura cresce con chi la legge» (idea centrale
in Gregorio Magno, raccolta dal Concilio nella Dei
Verbum, n. 8, per
la gioia esultante di padre Calati). Tanti sono i libri, parole,
tradizioni, esperienze, linguaggi, ma un libro aperto e vivo, dalle
tante pagine quanti sono i volti umani, è il cuore profondo che, con
analoga sete e tensione, pulsa e scruta il mistero in ogni persona
che coltiva lo spazio interiore. Come Gandhi, don Michele ritiene
che, salvo necessità spirituale assoluta, nessuno debba abbandonare
la via religiosa che sta percorrendo, ma approfondirla e, nel
profondo, incontrare i pellegrini delle altre vie.
Il cuore umano è il libro
sacro di tutte le religioni, di tutte le ricerche di vita serie,
anche non religiose, il libro dei credenti e dei “diversamente
credenti”, il libro dei persuasi e dei perplessi (come si
riconoscevano reciprocamente Aldo Capitini e Norberto Bobbio); il
libro che abbiamo tutti insieme da leggere e capire, da interpretare
senza fine nel colloquio teso alla verità della vita. Il cuore umano
legge in modo vivo le antiche varie sapienze sacre, perché in esse
si riconosce e si specchia.
Il libro scritto, posato nello
scaffale, è come lampada spenta che attende la corrente viva del
cuore illuminato per emettere luce. Il libro scritto è come le ossa
morte e silenziose che, scosse dallo spirito, riprendono carne e
nervi (Ezechiele 37): così avviene quando un cuore vivo legge,
interroga e ascolta il libro, lo comprende e assimila. I grandi libri
prendono voce nei cuori che li scrutano. La Scrittura vive e cresce
con chi la legge.
Il cuore umano è il crocevia
sul quale le diverse vie religiose dell’umanità si incontrano, si
riconoscono, si salutano, percorrono insieme qualche tratto di
strada, si istruiscono reciprocamente sull’orientamento, proseguono
anche per diversi cammini verso lo stesso orizzonte, che è la vita
vera e buona.
Il dialogo tra le religioni,
necessario alla pace e alla vita dell’umanità, procederà se si
porrà a questi livelli interiori, e non sul solo piano della
diplomazia di chiese o del dibattito dottrinale. Come è stata
impostata, da Hans Küng e da alcuni altri autori, la ricerca
sull’etica universale, così lo spunto che stiamo raccogliendo da
Michele Do – il cuore di ogni uomo come luogo dell’appello di Dio
– può impostare il senso unitario, non certo nella fusione o nella
supremazia, delle religioni dell’umanità.
16 - Religentem
oportet
Nel linguaggio di Michele Do,
denso e sempre legato all’esperienza profonda, “religione” ha
un significato positivo e ricco. Non è sminuito nell’opposizione a
“fede”, come fa il filone teologico barthiano. Supera d’un
balzo i sospetti psicanalitici e sociologici, perché è tutt’altro
che una cosa rigida e piatta, obbligante e repressiva, non è
obbedienza nel senso deteriore (CODP 132). Religione per lui è
ascolto, sensibilità, interrogativo, relazione, vibrazione, profondo
contatto con una presenza che chiama avanti, verso la luce. Nello
slancio, egli non si lascia invischiare nei significati negativi e
riduttivi.
Mi aiuta spesso un antico
verso riferito da Aulo Gellio, nelle Noctes
Atticae (XX, 4, 9),
con il quale credo che si possa interpretare il senso di “religione”
per don Michele: «Religentem
esse oportet, religiosus nefas»:
è cosa nefasta essere “religioso”, cioè ritenere di
rapportarsi, in senso dipendente e passivo, ad un originario resosi
ormai disponibile, come ad un oggetto, una cosa; ma bisogna essere
“religente”, cioè di quelli che attivamente sempre di nuovo, in
atto, si collegano all’originario, e così anche collegano,
congiungono le cose e gli esseri (cfr M. C. Bartolomei, Intersezioni
tra scrittura e interpretazione: la Bibbia,
Libreria Cuem, Milano 1990, p. 85-86).
Dunque, una religione che
sempre ritorna alla scaturigine più genuina, dove si libera e si
autentica, e là trova anche il punto d’incontro dell’amicizia
universale profonda, nel cuore di Dio.
Cose simili, con uso diverso
dei termini fede, credenze, religioni, diceva proprio qui a St
Jacques, Raimon Panikkar, nell'ottobre 1992 (dai miei appunti,
pubblicati col titolo Dopo
il cristianesimo, Cristo,
in il foglio
n. 195, dicembre 1992; www.ilfoglio.info):
«La fede è la costitutiva apertura dell'uomo verso la trascendenza.
È la consapevolezza di essere in/finito, non/già/finito, e dunque
di poter crescere. Ogni uomo è aperto a questo "più". È
un'apertura esistenziale, di cui ogni uomo è capace. L'atto di fede,
che salva, è l'atto con cui l'uomo si riconosce non/finito, non
perfetto. Ogni uomo, poi, cerca di far cristallizzare questa visione
in proposizioni, in formulazioni. Queste sono le credenze, diverse
dalla fede, anche se la fede che non si esprime in credenze può
restare vaga, inefficace».
17 - Ma quale cuore?
Ma quale cuore umano è il
libro universale in cui Dio scrive e parla? Il cuore dell’uomo è
un «guazzabuglio», dice Manzoni. «Un baratro è l’uomo e il suo
cuore un abisso» (Salmo 64,7, traduzione Lancellotti). Lo stesso
versetto nella traduzione di Turoldo: «È l’interno dell’uomo un
enigma, è un abisso insondabile il cuore».
Nel cuore dell’uomo c’è
il bene come il male. Ci sono cuori in cui vediamo prevalere il lato
rozzo, violento, duro.
Possiamo dire che Michele Do
non pone in primo piano nel suo pensiero e nella sua comunicazione il
problema morale, del male da togliere, del bene da fare, della
giustizia, del dovere, dell’azione nella storia. Non si sofferma
sul grave interrogativo del male, che tormenta Giobbe: il male non si
risolve, lo si attraversa con la forza dell’anima. Non dà precetti
e regole di vita e di azione. Egli vede, rivela e incoraggia la
tensione a Dio del cuore umano, pur debole e fallace, peccatore, e
l’attrazione profonda di Dio che si avvicina e si immedesima
all’uomo. La vita buona e l’azione giusta sarà il frutto
dell’unione con Dio, della trasparenza alla sua luce, che produce
comunione e amicizia tra noi. Suoi amici come Balducci, come Turoldo,
entreranno di più, con lo stesso spirito, nell’agone storico,
nella lotta per l’umanità e per la pace. Ad ognuno il suo compito,
ad ognuno di noi la sua parte di eredità da questi fratelli e
maestri.
Certo, il male c’è. Anche
nella bibbia-libro c’è la violenza e la malvagità dell’uomo, e
c’è anche una concezione violenta di Dio. Non si può leggerla
senza discernimento spirituale, alla luce del cammino che Dio ha
fatto e sta facendo insieme all’umanità, e del suo paziente
rivelarsi. La luce di Dio illumina anche il male, ne attenua la
minaccia scura, gli oppone la tenace speranza, lo abbraccia nella
vita liberata.
La bibbia, ogni bibbia, dà
luce, se comprendiamo che sorge da cuori umani toccati da Dio e dalla
sua ricerca, e se la decodifichiamo sciogliendola, come lievito nel
pane, o zucchero nel latte, negli atti vissuti della nostra
esistenza.
La lezione di don Michele
demitizza la bibbia, non ne perde certamente alcuna ricchezza, ma si
libera e ci libera dal biblicismo angusto: quello che venera il
libro, lo percorre continuamente, nella lettera e nello spirito, ma
senza vederne bene e indicarne gli sbocchi sulla vita, in entrata e
in uscita. Un giorno, alla tavola di don Michele, un teologo ospite
disse: «Vale a volte per i biblisti quello che Gesù disse degli
scribi: fanno una siepe intorno alla bibbia, non ne escono e non
lasciano entrare».
18 - Ripartire dalla sorgente
Il primo degli otto punti per
ripensare il cristianesimo, chiede: «Da dove parte il cammino
religioso dell'uomo? a quali profondità si accende la domanda
religiosa?».
Don Michele proponeva, con
inesausta nostalgia di aperto e profondo colloquio con gli amici, di
incontrarsi, di dare ciascuno la propria risposta personale, di
interrogare i grandi testi significativi, e questo «sempre solo sul
filo dell’amicizia», e tutto secondo il «principio ispiratore»,
che è «il partire dalle persone, non da sistemi di verità».
Quelle sue otto domande sono
consegnate a noi, sono lavoro continuo da fare. Ma sono anche
indicazioni, direzioni di ricerca: cammino, profondità, domanda.
La religione è «un cammino».
L’attesa religiosa si accende nella «profondità» dell’uomo,
non al margine della vita, non dove l’uomo viene meno e si aggrappa
a un dio tappabuchi. La ricerca è una «domanda», cioè l’apertura
di un colloquio, orizzontale e ascendente, perciò l’apertura ad
accogliere una risposta.
Allora, qui mi ricordo quelle
parole di Norberto Bobbio, che il cardinale Martini citava
condividendole con ammirazione: «Non è tanto importante la
differenza tra credenti e non credenti, quanto tra coloro che si
interrogano sui grandi problemi della vita, e coloro che non si fanno
domande». Ecco, la «domanda», come momento sorgivo. Nessuna paura
delle domande! Sono porte e finestre nei muri, ponti audaci sugli
abissi.
La
«profondità» umana è il cuore dell’uomo. Non luogo di
sentimenti tremuli, ma il centro, la sostanza di ciò che siamo,
l’abisso che conteniamo, che ci può inghiottire nell’assurdo,
oppure può rivelarsi un passaggio a scoprire il mistero vivo e
presente, altro da noi, verità di noi. Il nostro centro profondo ci
porta oltre noi stessi. L’uomo sorpassa se stesso, «l’homme
dépasse l’homme»
(Pascal).
Nell’omelia della festa di
Tutti i santi, 1 novembre 1993, don Michele si chiedeva: «Chi è il
santo?», e, poco oltre, diceva: «L’uomo è il solo sacramento di
Dio. L’uomo, quando ha trasfigurato e interiorizzato Dio, è
l’unica, sola, alta e grande parola di Dio». Proprio “unica”
parola di Dio? Sappiamo che don Michele leggeva l’opera fecondante
di Dio sul mondo nella parabola sua tipica della zolla, del fiore e
della luce. Ma l’uomo è la zolla più fonda che riceve la luce più
intima e può germinare nel fiore più bello: in questo senso unica
parola di Dio.
Prosegue quell’omelia:
«Vedete come è universale il senso religioso, alto: ovunque si
trovano questi momenti fondamentali dell’esperienza religiosa; e
allora, reverenti, come gli indù che portando le mani dal capo al
cuore, nell’inchino dicono la parola sacra “namaste”, diciamo
anche noi questa sacra parola: “Saluto reverente il Dio che è in
te”».
*
* *
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