4 gennaio 2020
Gentile dottor Luca Evangelista,
sono il samaritano di cui Lei scrive nel primo dei Suoi libri. Lei rese famoso in mezzo mondo quel fatto che mi occorse sulla strada da Gerusalemme a Gerico, tanti anni fa. Il Suo Maestro ne parlò rispondendo a un dottore della Legge che gli chiedeva chi fosse il nostro prossimo. Così, nelle pagine che tramandano gli insegnamenti di quel Rabbi, io diventai il Buon Samaritano.
Ora, col tempo e l'età, prendo l'occasione, avendo conosciuto per caso il Suo recapito in Macedonia, di farle sapere come andò davvero. Vorrei togliermi l'imbarazzo di essre diventato un modello di comportamento: non lo merito. Per fortuna, solo pochi miei conoscenti sanno che quel personaggio senza nome sono io.
Ecco, me ne andavo effettivamente per i miei affari, per quella strada, sul mio asino. Sapevo che c'era il pericolo dei briganti. Avevo con me un po' di denaro dei miei commerci, e non ero del tutto tranquillo. Alcune centinaia di metri davanti a me, camminavano un sacerdote e un levita. Cercavo di raggiungerli, perché camminare in compagnia dà più sicurezza. Ad una curva, mi accorsi che entrambi acceleravano il passo. Di lì a poco, capii il motivo, quando vidi l'uomo mezzo morto, là per terra. Evidentemente, quei due non vollero fermarsi ad occuparsi di lui. Ripensandoci dopo, li capisco. I briganti potevano esseee lì attorno, in attesa di altre occasioni. Poi, per loro, c'era la questione della purità: o venivano o andavano al culto, non c'era tempo di purificarsi. Io non ho questi problemi. Non frequento nessun tempio: non mi ribello alla Legge, ma di fatto è così. Dio può essere rispeattato in vari modi. Ha saputo dopo, a proposito di templi, di un famoso colloquio, al pozzo di Giacobbe, tra quella donna di Sichar e il Vostro Maestro, su quale fosse il vero tempio. No, non sono uno dei suoi cinque mariti, è mia cugina. Io dunque non avevo il problema della purità. Ma, visto quel disgraziato mezzo morto, mi apparve una scena che non ho mai potuto dimenticare. Un mio fratello, tanti anni prima, quando io ero ragazzo, era stato ammazzato da certi brutti tipi, per cattive faccende di paese. Io stavo tornando a casa, allegro, fischiettando, quando, ad una curva, me lo sono trovato davanti, riverso sulla strada, in un lago di sangue, senza vita. Era mio fratello. Mi si è stampato nel cuore, insieme a quella visione, quello che dice la Legge, sena bisogno di studiarla come fate voi: ammazzare non si può, non si deve. Non c'è bisogno di dare delle ragioni: la vita è vita, è sopra di noi, non si tocca, a nessuno va tolta. Ora, appena visto sulla strada quel poveraccio mezzo morto, ho visto mio fratello. Non ho avuto bisogno di pensare. Aveva bisogno di me, per non morire. Ho fatto quello che sapete tutti, più o meno come Lei lo ha raccontato, come lo predicava il Suo Maestro. Sì, l'ho curato come potevo, l'ho portato alla locanda, l'ho vegliato tutta la notte, piano piano si riprendeva, l'indomani ho lasciato qualcosa all'albergatore (in realtà un po' più delle due monete che scrive Lei...), e ho promesso di passare al ritorno. A parte quel particolare delle monete, che posso capire, il Suo racconto è tutto giusto. Ma non sono così tenero come può sembrare dalle sue parole. Senza quella mia precedente esperienza di dolore, non so se mi sarei fermato. C'è tanto male al mondo, non si può rimediare a tutto. Ma, come Le ho detto, in quel ferito mi è apparso mio fratello ucciso, presente. Sì, come dice Lei, sono state le mie viscere, il più profondo di me, che mi ha mosso, mi ha spinto, prima di ogni riflessione, a soccorrere quell'uomo. Qualche profeta ha detto che la Legge l'abbiamo scritta nel cuore. Beh, per quel che ne so, posso confermare.
Mi scusi il disturbo, accetti i miei saluti, e mi permetta di restare senza nome.
Un Samaritano (né buono né cattivo).
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