III - Distacco appassionato
Enrico Peyretti
(pubblicato su Rocca 15 settembre 2020)
Di fronte al nostro morire, abbiamo sentito che Michele Do proponeva: «Diminuire consentendo. Consentire con animo sereno. Distacco appassionato». Già lette, in questa rubrica, le prime due espressioni, provo ora, timidamente, ad ascoltare la terza. Che cosa può voler dire “distacco appassionato”? Sarà un distacco, anche uno strappo, forse tragico, forse lungo e penoso. Non illudiamoci che sia sempre un passaggio liscio. Eppure, diciamo no ad una religione che esalti il distacco, la rinuncia sacrificale, il culto del dolore, l’abbandono di questa vita come un rottame. Questa vita mortale ci piace e ha valore. Prima di ogni prodigio, la vita stessa è un miracolo. La sopravvivenza è il primo lavoro continuo di ogni vita. Difendere la vita, in tutte le sue espressioni, è il primo compito morale, culturale, politico. Non sarà facile morire: ne soffriremo. «Mi dispiace tanto morire!», diceva negli ultimi anni Benedetto Calati, grande monaco, che alla fine mormorava: «Andiamo in pace». Svalutare la vita non è una buona accoglienza della morte, ma un falso coraggio per un passaggio difficile. Non sarebbe gratitudine e rispetto per la vita ricevuta. Si dice che la madre di Leopardi quasi si rallegrasse per i bambini che le erano morti piccoli: «Ho un altro angioletto in cielo per me!». Così, è un’indecenza osare di abbellire la morte come atto di conquista autodistruttiva: la “bella morte” fascista e guerriera. Invece, il distacco ci costerà. E quando la morte è inflitta, è il massimo orrore. Nella mia città c’è un bellissimo grande parco della Rimembranza, dal 1925, a celebrare la disastrosa vittoria del 1918. Su piccoli cippi di legno si leggono i nomi dei 4.800 caduti torinesi, fatti morire per superbia statale e poi “onorati”, cioè ulteriormente offesi, con l’oscena retorica dannunziana nel monumento alla Vittoria. Morire può essere un generoso fare spazio ad altri, ma ci costerà. Cerchiamo che il nostro morire non sia un freddo lasciare ciò che finisce, ma senta la sofferenza di una perdita, insieme a una tensione appassionata verso ciò che può venire. Che cosa può venire? Sempre, in tanti modi, l'umanità ha pensato (immaginato, sperato, anche disperato o negato) la nostra vita come avvolta in una più grande vita, di cui siamo parte: le energie dell'universo, i regni minerale, vegetale, animale, l'intero cammino dell'umanità, il mondo spirituale: prima e dopo di noi. Possiamo in tanti modi coltivare una passione per l'ignoto che supponiamo, una tensione in ascolto e desiderio se mai ci sia un paesaggio mai visto, di là dal colle, una patria sconosciuta. Che il distacco sia dunque appassionato, e non rinunciatario. Ogni passione è patire una mancanza e desiderare una bellezza. Se questa vita non ha passioni è già morta. Che la vita arrivi ricca di passioni a quel limite: ogni passione è viva, attiva, pur nella sua povertà. Se la vita fosse ricca senza limite non avrebbe desiderio di nulla (il progetto transumanista rischia questo): poiché è povera e finita, desidera ogni bene. Platone ha parlato così di Eros, che non è opposto al Bene, ma cresce fino a cercarlo, oltre se stesso. Il desiderio vede una porta nel muro. Chi ascolta l'evangelo di Cristo sente che la vita eterna, senza caduta, è già nel seno di questa vita caduca, e nascerà in un distacco, come avviene nel parto: perdita e inizio, caduta e nuovo cammino, uscita da un tempo chiuso ed entrata in una via aperta. Siamo nati perdendo nostra madre, in una specie di morte feconda. Molto perderemo, e la verità della vita emergerà, come nel grido del neonato, il primo di tanti respiri. Un respiro che un giorno cesserà, ma avrà alimentato vita, col perdere e col trovare. «Facciamo cose che meritino di non morire», diceva Michele Do, e forse così lasciamo nascere in noi, oltre noi, cose vive, più vive di noi ora. Se un Vivente-più-vivo-di-noi avvolge come una madre questa nostra vita nel tempo, staccarsi da questo tempo non sarà un cadere nel vuoto.
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