sabato 14 novembre 2020

 

II - … con animo sereno

Enrico Peyretti

(pubblicato su Rocca 15 agosto e 1 settembre 2020)


Seguendo quel trinomio che Michele Do proponeva a se stesso, in età avanzata, nell'avvicinarsi della morte, abbiamo già cercato di intendere “diminuire consentendo”. Proviamo ora ad ascoltare il “consentire con animo sereno”, cioè non passivo e ostile. (Poi verrà “distacco appassionato”). Serenità o turbamento dicono stati del nostro animo con immagini del cielo, limpido e luminoso, oppure oscurato, minaccioso. Siamo parte della natura, e in essa ci riflettiamo per esprimere l'intimo nostro. L'animo è sereno quando può guardare alla realtà, al tempo che scorre, anche alla morte che verrà, senza essere oppresso dalla mancanza di luce. La luce è il primo respiro sia degli occhi nostri sul mondo, sia delle più profonde condizioni del nostro essere, sia dell'esistenza stessa dell'universo che ci contiene. È un grande bene la serenità intima di un animo che gode di una luce sufficiente. Ci affanniamo per mille cose, ma più di ogni bene e della stessa salute fisica, desideriamo serenità: l'animo come un lago vivo e tranquillo, un prato luminoso, abitato da buone compagnie, da relazioni positive, un ambiente in discreta pace. Quel che più ci turba, e ci sembra una morte, è l'agitazione profonda, le ferite intime, il deserto attorno, la solitudine non scelta, il futuro oscuro. Ora, ci chiediamo se si può essere sereni pensando al nostro inevitabile morire. Sappiamo solo che verrà, ma non quando (il tempo lo avvicina) né come. È un bene la lunga vita, ma la pretesa di rimuovere indefinitamente la nostra mortalità, come fa il paradigma tecnicistico del trans-umanesimo, è probabilmente stoltezza. Di tutto, anche della pandemia, possiamo farci una facile immagine ottimistica: “andrà tutto bene”. Ma del morire? È desiderio molto profondo immaginare le condizioni migliori per riconsegnarci alla natura: senza dolore, col conforto di cura e affetti, in pace con la vita vissuta. Ma temiamo la morte angosciosa. Da sempre, nell'umanità, le religioni e la saggezza hanno soccorso gli umani in questo timore, proponendo una visione del nostro morire almeno sopportabile, verso una quiete senza pena. La morte è vista come momento naturale della vita, sensata nella sua limitatezza, specialmente se lascia qualche buona traccia. Oppure può essere l'ultimo lavoro (travaglio), come il nascere, come la fatica di valicare un colle. Quando la tempesta batte qui, una linea di sereno può aprirsi all'orizzonte. Le religioni discese da Abramo osano accogliere la morte come un passaggio ad un'altra forma di esistenza, come incontro con un Vivente-più vivo-di-noi, che ci accoglie, come all'inizio ci ha dato vita. Più come severo giudice, secondo alcune immagini, più come padre accogliente secondo altri accenti: in entrambi i casi, la morte non è una caduta nel nulla. Si intuisce questa nostra vita come un tale miracolo, una realtà così nuova, chiamata ad essere unica, che non può scomparire. Purtroppo, per secoli, il discorso religioso sulla morte (mi limito ora al cattolicesimo) è stato più pauroso che fiducioso. Con l'arma della paura, la minaccia dell'inferno, la chiesa ha dominato le coscienze. Vendeva cara la serenità, da comprare con la sottomissione alle sue regole e al suo potere salvifico. In una spiritualità cristiana più seria, più umana, più evangelica, il pensiero della morte non suscita paura di Dio e del suo giudizio, chiede certamente vigilanza e serietà, ma soprattutto fede nella promessa di un Vivente che ci accoglie in un respiro totale. Gesù, l'uomo che più di tutti ha vissuto in se stesso la presenza piena dello Spirito divino vitale, ha promesso «vita eterna» a chi s'incammina sulla sua via buona. Egli è stato colpito da un rifiuto feroce e mortale, ma possiamo sentirlo presente, più vivo del male potente. In ogni caso, il nostro animo, pur sospeso su quel passo che ci attende, può invocare e sperare una serenità non banale da chi ci consegna una vita di luce.

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