Segni dei tempi (giugno 2020)
Si abbattono in Usa i monumenti degli schiavisti. La sorte dei monumenti è di sorgere alti e solenni, poi di essere dimenticati, e anche condannati, abbattuti, o chiusi in un museo, se gli va bene. A Torino (città piena di personaggi regali o militari, ritti senza riposo su alti piedistalli e agili cavalli), chi ricorda cosa rappresenta il fiero monumento davanti a Palazzo di Città? Non ci piace quello che racconta, né piacerebbe ai turchi dei vicini kebap, ma lasciamolo lì, come un vecchio quadro di casa. Se si volesse ripulire tutta la storia, ci daremmo la zappa sui piedi. Di bronzo o di marmo, in poemi o in volumi di storia, anche nel parlato quotidiano, i monumenti (un po' ricordi, un po' ammonimenti), sono idoli pietrificati nelle piazze e nei crocicchi, perché è d'obbligo vederli, che raffigurano qualche entità forte, ammirata o temuta, che si fa ricordare nel tempo, per qualche merito o qualche nefandezza glorificata. In fondo, abbiamo tutti in casa dei lari domestici, vecchie foto di bisnonni e gruppi di famiglia, chissà se proprio in tutto esempi specchiati di vita o di giuste opinioni, ma sono lì per l'affetto memore delle radici. Tutto vale per meditare. Ricordare è comunque bene, anche per criticare, e per condannare quello che è ingiusto. Distruggere distrugge anche quello che noi siamo, in bene e in male.
Si diceva, l'altra sera in tele-redazione: la storia ufficiale, delle scuole, è la storia dei vincitori, dei violenti, scritta dai cortigiani, e tace degli oppressi, degli sterminati. Questo è vero, ma non del tutto. La storia sociale, dei popoli e non dei re , la controstoria taciuta, è ormai parte degna della migliore cultura critica. I movimenti critici danno voce ai silenziati della storia: i vinti, le donne, i poveri, i tacitati, cancellati, sommersi, mandati via senza volto né nome.
Ma, oltre le voci espulse, ci sono visioni espulse. Quando un profeta mormora o grida, è un occhio nuovo che guarda la storia: quella passata e quella che può venire. L'occhio del profeta, interprete dei fatti e sentinella che scruta l'orizzonte, raramente è famoso, ascoltato in vita, quasi mai è fulminante. Spesso ci si ricorda di lui, dopo, quando avviene ciò che ha visto. Ma c'è anche chi comprende e fa attenzione. Fare storia è raccogliere i fatti, con serietà, ma anche vedere i segni dentro i fatti. I fatti sono cose pesanti, i segni che ne escono, come scintille dalla pietra, vanno più lontano.
La categoria “segni dei tempi” è evangelica (Matteo 16,3). E' interessante da leggere: i farisei dicono a Gesù: “Mostraci un segno dal cielo” per avvalorare quello che ci dici. E lui: “Salami! Sapete fare le previsioni meteorologiche e non sapete vedere i segni dei tempi!”. Vuol dire che il segno è il suo vangelo: notizia buona, nuova, promessa felice, pur in mezzo ad una storia di fatti duri, pesanti, violenti, di potenti ciechi e feroci, di guerre, dolori, condanne e morti. Chi ha portato il vangelo ha sofferto tutto questo. Dentro i fatti ci sono dei segni, e non solo di altri mali, ma anche di uscite alla luce. Studiamo la storia e i suoi segni, i semi nella terra, più attentamente possibile, perché dia luce al cammino della vita, indichi le tendenze e ci orienti a ciò che è giusto.
La categoria dei “segni dei tempi” è stata ripresa da papa Giovanni nella “Pacem in terris”, nel 1963. Egli indica, in conclusione di ogni parte dell'enciclica, i segni che vede in quel tempo di speranza. Essi sono: l'uguale dignità di tutti gli umani, l'emergere storico dei lavoratori, delle donne, dei popoli; la convinzione crescente che la guerra è totalmente irrazionale, e che la comune umanità richiede di negoziare i conflitti, con l'esclusione delle armi; la consapevolezza dei diritti umani e l'organizzazione delle Nazioni Unite come strutture e mezzi della unica comunità mondiale dei popoli. Almeno da allora, c'è una teologia cristiana dei segni dei tempi. Se volessimo provare oggi, con quello spirito di verità e di speranza, quali segni possiamo intravedere? Tentiamo un grezzo elenco, tutto da discutere.
L' “uomo planetario”, che Balducci vedeva, è il nuovo abitante della terra. Ormai il problema degli uni è problema di tutti, su scala dell'intera terra. Dopo Hiroshima, la sorte è comune. Basterà ora il coronavirus per convincerci? Perciò occorre costruire una regolata “res publica”, articolata in unità pluralistica, poliedrica. Vedi www.costituenteterra.it . Stiamo scoprendo, pur con contraddizioni, che la violenza non serve. La violenza superarmata è oggi il mito superpericoloso dei poteri economico-politici, ma non dei popoli: i movimenti giovanili che si svegliano dentro le crisi agiscono in forme calme e forti, inventive, proprio perché nonviolente, ma gentili, positive, aderenti ai problemi reali, informate e coscienti, planetarie e coordinate. Le forme violente sono di bande fanatiche, ignoranti della realtà nuova, e dei vecchi stati conservatori di se stessi. Sta formandosi una cultura storica che documenta l'efficacia lunga e profonda delle lotte nonviolente (una possibile bibliografia, Difesa senza guerra, non aggiornata, è nel mio blog e in rete, tra altre). I valori umani del nostro tempo sono frutto di coscienza profonda, non di imposizioni violente e fallimentari, non insegnati da autorità magisteriali, ma ritrovati nella sofferenza. Le religioni vanno riconoscendosi a vicenda, nelle loro differenze, come diversi raggi e colori di una luce oltre le loro luci. Se ci sono fenomeni gravi di assolutismo fanatico, effetto di paure non intelligenti, aggrappati a quadri limitati e superati, essi sono freni e inciampi di un cammino, non sono il cammino storico nuovo. Le persone e i popoli soffrono ancora discriminazioni atroci, ma questa offesa è sentita dai più ormai innaturale: c'è una coscienza morale della comune dignità che fermenta e non retrocede. La giustizia vitale, primaria, è l'attesa di tutti gli umani, per molti senza una speranza prossima, ma sarà trasmessa ai giovani come esigenza pari al respiro. Il figlio dell'immigrato espulso sarà violento, o sarà un immigrato più preparato al convivere? E il diritto universale alla libertà non sarà più tollerato come appannaggio esclusivo dei forti e dei privilegiati, perché questo osceno spettacolo prima era nascosto, ora è visibile a tutti. E le vittime che gli imperi seppellivano nel buio, oggi sono sugli schermi di tutti, e chiamano tutti alla lotta giusta. Non basterà sventolare giusti idealismi (come sto ancora facendo qui), pur necessari a sfondare i muri della falsa fatalità, ma bisognerà stringere molte mani e volontà e capacità nell'azione politica, che non è per conquistare il potere come un castello, ma per distribuire universalmente le possibilità, come una mensa familiare. La legittima richiesta democratica del potere di decidere con giustizia , va rivolta a popoli consapevoli perché informati e colti, coscienti. Nonostante le maree di falsità buttate addosso ai popoli per dominarli, è possibile, più che in passato. la faticosa conquista della consapevolezza.
Altro male, e nuovo male, può essere in germe nei fatti presenti: la distruzione artificiale dell'equilibrio naturale, della vita multiforme, affidata a noi. Il male c'è, ci sarà ancora. Prima necessità: vederlo, individuarlo. Quindi: non accettarlo. E perché? Perché, nonostante cedimenti e tradimenti, lo sentiamo contro la vita, contro la coscienza, contro tutto ciò che siamo. Il male è tale, può essere giudicato male, perché abbiamo nel centro di noi la coscienza del bene, del giusto, del vero: non una prova esterna, ma una presenza intima. C'è in noi, nella pluralità delle visioni, un bene vitale che non vuole il male. Abbiamo questa forza vera, mettiamola in comune, e cammineremo. Sperare non è già avere, ma desiderare è agire, procedere, insieme.
e. p.
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