La
mia fede (ultima
revisione, per ora, del 4 marzo 2019)
Io
credo di avere un po' di fede. Penso che fede non sia sottoscrivere
una dottrina, né la conclusione di un ragionamento, meno ancora
appartenere a una religione. È
una
fiducia. Non si dovrebbe dire "credo in Dio", semmai "credo
a Dio". Si crede a qualcuno con un atto ragionevole, non
assurdo, sì, ma non solo un atto intellettuale, non solo una
verifica sperimentale: è un'adesione del sentimento,
dell'intelligenza emotiva e valoriale, che coglie il bello di una
persona, di un ideale, con quel senso di partecipazione, di
consonanza, che mi fa dire: questo è un bene per la mia vita, questa
persona mi indica e mi trasmette un buon significato, una direzione e
una speranza, un modo di vivere che sento buono e bello. Dunque lo
riconosco, perché in fondo è quello che aspettavo. Qui mi trovo
bene, mi sento amato, trovo pace. Anche se ci vuole continuo coraggio
e forza interiore per mantenere e far vivere la fede davanti ai colpi
del nulla distruttivo. Anche se l'adesione è impegnativa, anche se
mi fa sentire la mia inadeguatezza, le mie infedeltà, i miei errori:
ma questa è la mia strada. E chi me la indica e mi precede e
accompagna, è mio maestro, e mio salvatore dal male e dal non-senso.
Se
la fede non è un'evidenza cogente, il dubbio l'accompagna sempre.
Secondo me, non si tratta del dubbio teorico (ci sarà, non ci sarà?
è vero, non e vero?), ma del non-possesso. Fiducia è meno (ma anche
più) della certezza. È
la povertà che nell'evangelo è detta beata, cioè felice, grande,
vita realizzata, nonostante le apparenze. È appoggio
non sull'evidenza, che si impone e non posso rifiutare, ma sulla
presenza, che io accolgo o non accolgo. L'evangelico "…
rinneghi se stesso" (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23) che Gesù pone
come condizione per seguirlo, forse vuol dire: non c'è rapporto per
chi si basa solo su di sé, per chi fa l'autosufficiente. L'essere è
relazione. Sapere non le cose morte, ma la vita, è fidarsi,
affidarsi, consegnarsi, appoggiarsi. E diventa coscienza di dover
offrire appoggio, con l'incertezza sulla mia capacità. Fede come
appoggiarsi a una persona, è non consistere solo in se stessi, è
stare in piedi grazie al braccio amico, offerto, non mio. È
altro
dal "com-prendere" intellettuale, e dal possedere. Nella
relazione c'è il relativo, uno spazio interrogativo tra l'assenza e
la presenza.
Salvatore
dal nulla è per me Gesù di Nazareth, ma riconosco un valore simile
al suo nei maggiori illuminati della storia spirituale dell'umanità:
i grandi sapienti, i profeti dallo sguardo teso in avanti, le sante
anime dell'agire buono e della misericordia verso tutti, i coraggiosi
liberatori delle vite oppresse. Trovo tanti maestri di vita e da
tutti ricevo dei beni, li accolgo con libertà critica, e con
gratitudine. Non metto in opposizione tra loro le religioni: quelle
cosiddette "maggiori", cioè più a lungo e largamente
seguite nei secoli dalle generazioni umane, evidentemente hanno
aiutato a vivere, hanno dato un significato anche ai dolori e
oscurità delle nostre esistenze. E vivere con un senso salva la vita
dal nulla e dalla morte. Ma, per le circostanze di tempo e di luogo
della mia vita, nessuno, per me, più di Gesù di Nazareth illumina
la via e anima il cuore e la volontà. Mi
sento di dire come sorella Maria di Campello quando scrive a Gandhi:
«Io
sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te,
con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri
della verità» (24 agosto1928). «Io sono riconoscente e in
venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma
la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle
stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da
tutti i cercatori della verità» (11
luglio 1932). Mi sento in una comunione spirituale universale, con
differenze che non sono divisioni, se intese bene. Quindi, in una
“chiesa senza confini”.
Credendo
a Gesù credo a Dio: questo nome è molto improprio, generico, serve
per molte figure. Il nome del dio vero non lo sappiamo: Gesù lo
chiama Padre. Usa il linguaggio del suo tempo, che noi dobbiamo
tradurre nel nostro linguaggio, perciò è assurdo limitare al genere
maschile (con effetti sulla nostra antropologia) l'immagine del
Padre, che comprende anche quelle che per noi sono le qualità
femminili, di Madre. Vuol dire, in sostanza, che è un Vivente che dà
vita, che vuole il nostro bene, che ama e soccorre, perdona,
protegge, carezza e accoglie. Lo fa per vie spesso difficili da
capire, da interpretare. Ma ci dà soprattutto segni e parole
interiori, suggerimenti al nostro spirito, che ci sostengono nella
fatica, con fiducia. E ci dà anche segni efficaci nelle persone
buone, generose, donative, che ogni tanto incontriamo e ricordiamo,
vite che ci incoraggiano e nutrono la nostra vita. Credo a Dio, ma
più che Padre, e Signore, supremo, trascendente, riesco a pensarlo
come Spirito interiore, vivissimo, aggiunta di Vita alla nostra vita.
Lo intuisco non fuori, ma nel profondo di me, dove comunico
veramente, per suo tramite, con tutte le vite e con tutta la realtà
Tutto
questo lo trovo, lo sento, in modo eminente e pieno, nelle parole,
gesti, sentimenti di Gesù, trasmessi a noi da quelli che lo hanno
conosciuto, con i linguaggi delle loro culture, un linguaggio spesso
simbolico, poetico, per esprimere luci inesprimibili nel comune
linguaggio delle cose. Gesù è detto il Cristo, cioè unto, segnato,
prescelto, uomo nuovo e santo, immagine perfetta di quel Padre-Madre,
che così vive nella nostra umanità. Lo Spirito di Dio che è in
ognuno di noi, e in tutte le vite e le cose, è nell'uomo Gesù in
modo pieno e perfetto. A Gesù presto la maggiore fiducia, gli
rivolgo la preghiera. La quale è un rapporto molto semplice: stare
in sua presenza, chiedergli il suo Spirito santo, che ci ha promesso,
per vivere la sua vita, per vincere il male e la morte. Il mondo lo
ha ucciso, ma noi sentiamo che la sua vita è molto viva, così viva
che regna sopra la morte, la vince, ed egli continua a comunicare a
noi quella sua forza di vita. La fede sa intimamente, nonostante i
colpi del male, che il bene è più forte del male.
Viviamo
e speriamo, cerchiamo di agire nel suo spirito, confidiamo nel
perdono e nella forza del suo amore universale. Questo è ciò che
credo, nel rispetto delle altre fedi o pensieri che aiutano a vivere
al meglio la nostra umanità. Tutto il resto è contorno, modalità
variabili di espressione, organizzazione possibile e perfezionabile
della comunità del suoi discepoli, momenti comunitari di ascolto, di
fede e di preghiera, in modi non assoluti, relativi secondo luoghi,
culture, tempi. Vorrei vedere smontare forme, decori, monumenti e
orpelli religiosi, e restare sola semplicità e bellezza povera. Tra
i momenti della vita di fede il più bello e importante è la mensa
(non un altare! non un tempio! non gerarchie sacralizzate!) in cui
rispondiamo alla sua richiesta "Fate questo in memoria di me",
cioè ripetiamo la sua ultima cena prima dell'arresto e della morte:
in questo atto di memoria e di fede, vissuto insieme tra noi, Gesù è
veramente presente, e si comunica a noi, come persona. Celebriamo la
sua nutriente presenza, non le nostre cerimonie e teorie. Pane e vino
sono segni della sua vita trasmessa in noi, corpo e sangue. Che la
mensa eucaristica non sia mai luogo di divisione teologica,
ecclesiastica, disciplinare, gerarchica, sacrale, ma sempre solo
luogo di profonda umile paziente e aperta comunione.
Troppe
teorie e dogmatismi sono nati attorno all'essenziale. Non ci si deve
dividere sulle teorie, sebbene in parte utili a pensare ed esprimere
la fede. Come discepoli di Gesù ci è chiesto di agire, come lui,
per il bene del nostro prossimo, di chi ha più bisogno di giustizia
e di amore. Questo è tutto il da fare laico, per vivere nella fede.
Il resto è commento, opinabile, variabile, superfluo: l'unico
problema delle strutture teoriche e comunitarie dei cristiani è che
siano leggere, povere, umili, per essere trasparenti al vangelo di
Gesù. Dunque, le comunità di credenti, le chiese di ogni
tradizione, non devono più pretendere di ricoprire società intere,
non possono più identificarsi con civiltà storiche, o addirittura
realtà politiche (come pretendeva la cristianità, e ancora
pretendono alcune forme socio-religiose), ma devono rispettare la
primaria libertà di ogni coscienza personale. La piccolezza numerica
può essere maggiore autenticità, e questa è la sola cosa che
conta. Il vangelo si comunica negli atti dei cristiani, che poi
rendono ragione della loro speranza.
La
fede nel Dio che è amore richiede la morale dell'amore. Più che a
regole fisse, più che a campi definiti di virtù e di peccato, la
realizzazione dell'amore nelle circostanze concrete è affidata al
discernimento personale: è amore dare certezze al dubbioso ed è
amore l'azione contraria: mettere dubbi al presuntuoso. È sempre
amore sostenere la vita, i bisogni, le attese, confortare le pene,
dare amicizia e gioia ad ogni prossimo che incontriamo, come fece
Gesù in parole e azioni, fino in fondo. Avere fede è invocare e
praticare questo suo spirito, e resistere con forza agli attacchi
disperanti. (E. P. )
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